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Cosa dice davvero lo studio che «dimostra l’efficacia delle terapie domiciliari Covid-19»

14 Gennaio 2022 - 19:19 David Puente
Annunciato dal comitato che propone uno “schema terapeutico domiciliare”, il documento non conferma alcuna efficacia e presenta dei grossi problemi. Lo abbiamo analizzato

L’estrema difficoltà di acquistare in farmacia il farmaco Zitromax, antibiotico a base di azitromicina prodotto da Pfizer, ha destato preoccupazione e persino la necessità di un intervento da parte dell’Aifa per spiegare un concetto base, già noto a partire dal 2020 a inizio pandemia: «Non esistono antibiotici efficaci contro Sars-Cov-2». Una precisazione necessaria, visto l’ancora diffusa confusione nel trattare un virus con un farmaco che serve per un patogeno diverso, i batteri. Dall’altra parte c’è la disinformazione, così come medici che prescrivono l’azitromicina in coppia con altri farmaci come l’idrossiclorochina, la cui “utilità” risulti ancora oggi priva di fondamento scientifico.

Lo “Schema terapeutico domiciliare”

In un documento diffuso online l’estate scorsa, ad opera del “Comitato Cura Domiciliare Covid” e commentato dal giornalista e conduttore Rai Gerardo D’Amico in una serie di tweet, troviamo alcuni riferimenti per l’utilizzo degli antibiotici per i pazienti Covid-19, tra questi anche l’azitromicina e farmaci come l’idrossiclorochina e l’ivermectina. Un documento riportato dal giornalista il 30 agosto 2021, ma di dominio pubblico e accessibile da inizio mese attraverso diversi siti online.

«L’obiettivo del presente schema terapeutico è quello di evitare, per quanto possibile, l’ospedalizzazione e la letalità, trattando a domicilio la malattia COVID-19 nelle fasi 1 e 2» recita il documento nelle premesse, in totale 5 di cui riportiamo la terza: «L’atteggiamento suggerito nella fase 1 della malattia, pertanto, è quello di AGGRESSIONE PRECOCE dei sintomi infiammatori con presidi di provata efficacia e con antibiotici associati SENZA ATTENDERE ESITO DEL TAMPONE. Conta il tempo più del tampone!». Di fatto, una tale pratica potrebbe portare all’assunzione di farmaci senza essere a conoscenza o meno di essere positivi al Sars-CoV-2.

Le premesse a pagina 1 del documento del Comitato.

A fine pagina 2 e a pagina 3 viene riportato il così definito «trattamento domiciliare in fase 1» con i relativi farmaci elencati e la seguente indicazione: «Si indicano in Grassetto i farmaci da utilizzare, preferibilmente, accertandosi, in ogni caso, se il paziente assuma altre terapie che possano interferire». Nella tabella, alla voce antibiotici, quello riportato in grassetto è l’azitromicina.

L’obiettivo primario dello schema terapeutico, come spiegato nel documento stesso, non è soltanto quello di intervenire tempestivamente attraverso uno «schema semplice, facilmente memorizzabile e comunicabile anche telefonicamente,» con l’utilizzo di «farmaci facilmente reperibili» e con una certa «sostenibilità economica» (precisando che, in molti casi, «il costo della terapia sarà a totale carico del paziente»). Un altro obiettivo dichiarato recita in questo modo: «Uniformità dei trattamenti anche in vista di raccolta dati per studi scientifici».

Lo studio

Il 9 dicembre 2021, la pagina Facebook “Terapia domiciliare C-19” pubblica un post per annunciare «il primo studio scientifico del Comitato Cura Domiciliare Covid» dove troviamo tra i firmatari il prof. Serafino Fazio, la dottoressa Flora Affuso e l’ematologo Paolo Bellavite.

Il post Facebook riporta il link allo studio e un articolo di Ansa dal titolo «Covid: importanza terapia precoce a casa, studio italiano». Riportiamo alcuni punti salienti del comunicato stampa:

“La diagnosi precoce e la gestione precoce dei pazienti hanno ridotto la durata dei sintomi del COVID-19 e ridotto praticamente a zero il tasso di ospedalizzazione”.

[…]

“Va precisato – viene spiegato in un comunicato – che il disegno dello studio (retrospettivo e senza gruppo di confronto) non consente di valutare l’efficacia della terapia utilizzata ma il risultato suggerisce la possibilità di effettuare ulteriori studi “randomizzati” laddove ciò sia possibile e per i quali i ricercatori si dichiarano disponibili a collaborare.

Lo studio è stato pubblicato l’8 dicembre 2021 nella rivista online Medical Science Monitor, con un impact factor dichiarato di 2.649 nel 2020.

L’elaborato è stato condotto su una coorte di 158 pazienti, pochi rispetto alle migliaia di quelli che il Comitato sostiene di aver seguito nel corso della pandemia.

Alcune domande agli autori

Nella sezione «Materiale e metodi» dello studio viene citato il consenso informato fornito ai pazienti partecipanti, i quali avrebbero ricevuto un precompilato discusso «tramite telemedicina (telefono, email o WhatsApp)». Gli autori sostengono che «a causa delle condizioni dettate dall’emergenza pandemica, il consenso orale è stato dato in presenza di un testimone imparziale che ha posto la firma al posto del paziente». Tutti i dati sarebbero stati «completamente resi anonimi prima della tabulazione e dell’analisi statistica».

Il 30 dicembre 2021 avevamo inviato una email ai due principali autori dello studio, il prof. Serafino Fazio e l’ematologo Paolo Bellavite, con alcune semplici richieste di informazioni riguardo allo studio. La prima riguardava le modalità di raccolta dei dati, richiedendo cortesemente una copia del modulo relativo al consenso informato utilizzato per lo scopo. Non solo, viste le modalità citate nel paper, abbiamo chiesto in base a quale sospetto di infezione batterica è stato prescritto l’antibiotico ai pazienti e delucidazioni in merito alla gestione dei pazienti per la prescrizione dell’eparina, in particolare i parametri che sarebbero stati presi in considerazione.

Il primo a rispondere alla nostra email è stato l’ematologo Paolo Bellavite, rivelandosi tutt’altro che disponibile a chiarire i punti: «Il nostro lavoro è molto chiaro nei metodi e nei risultati, è stato abbondantemente peer-reviewed e non necessita di “fact-check”. La Scienza non procede in tal modo. Personalmente sono disponibile a collaborare, per le parti di mia competenza, con qualificati ricercatori che volessero riprodurre il nostro lavoro o confrontarlo con altri sullo stesso argomento».

Quindici minuti dopo, il prof. Serafino Fazio (che era in copia nell’email di Bellavite) ci scrive un’altra email in privato, presentando la disponibilità della dottoressa Flora Affuso per rispondere alle nostre richieste.

In merito al modulo del consenso informato, non ci è stata data la possibilità di averne una copia come richiesto: «la documentazione degli studi clinici è riservata ed è accessibile solo all’AIFA e al personale autorizzato».

In merito alla prescrizione degli antibiotici: «l’esame del quadro clinico e l’insorgenza di segni e sintomi riconducibili ad infezione polmonare batterica (e.g. andamento della temperatura corporea, saturazione O2 e sue variazioni, tosse, caratteristiche dell’espettorato -odore; consistenza; colore: bianco, giallo, verde, rosato, presenza di striature- età; condizioni cliniche del paziente; malattie e terapie concomitanti; dolore toracico; dispnea…) sono alcuni degli elementi che, in base al giudizio clinico, hanno portato alla prescrizione delle specialità medicinali più opportune. Nei rari casi in cui c’è stato il supporto dell’USCA è stato praticato anche un esame obiettivo e talvolta un’ecografia polmonare o un rx torace».

Per quanto riguarda l’uso dell’eparina: «L’eparina è stata aggiunta in terapia secondo le RACCOMANDAZIONI AIFA SUI FARMACI per la gestione domiciliare di COVID-19: “L’uso delle eparine (solitamente le eparine a basso peso molecolare) nella profilassi degli eventi trombo-embolici nel paziente medico con infezione respiratoria acuta e ridotta mobilità è raccomandato dalle principali linee guida e deve continuare per l’intero periodo dell’immobilità. Ciò si applica, in presenza delle caratteristiche suddette, sia ai pazienti ricoverati, sia ai pazienti gestiti a domicilio o nell’ambito di case di riposo o RSA utilizzando le dosi profilattiche.”».

Le critiche allo studio

Biologi per la scienza, attraverso un articolo pubblicato il 29 dicembre 2021, contestano i contenuti dello studio a partire dalle conclusioni:

This real-world study of patients in the population of Italy has shown that early diagnosis and early supportive patient management started within 3 days of the onset of symptoms reduced the severity of COVID-19 and the rate of hospitalization.

In pratica, gli autori sostengono di aver dimostrato che la diagnosi precoce e la terapia di supporto precoce avviata entro 3 giorni dall’insorgenza dei sintomi avrebbe ridotto la gravità della malattia e il tasso di ospedalizzazione, ma c’è un problema (e non è l’unico): manca il gruppo di controllo. L’unico confronto viene fatto su due gruppi di pazienti, per il quale abbiamo chiesto un parere che riportiamo nel seguente capitolo.

L’analisi dello studio di Enrico Bucci per PTS

Riportiamo fedelmente l’analisi del prof. Bucci, adjunct professor alla Temple University ed esperto nel revisionare di studi scientifici, per conto del Patto Trasversale per la Scienza (PTS):

Gli autori di uno studio sull’effetto di un trattamento per il COVID-19, secondo un protocollo denominato di “terapie domiciliari precoci”, sostengono correttamente che lo studio che hanno svolto non è utile a determinare l’efficacia di tale protocollo, innanzitutto perché si tratta di uno studio osservazionale, e poi – va detto chiaramente – perché lo studio non prevede un gruppo di controllo, cioè di pazienti identici ma senza trattamento, come confronto statistico per misurare sicurezza ed efficacia.

Il lettore, a questo punto, potrebbe legittimamente chiedersi quale sia lo scopo di studiare un protocollo terapeutico nuovo prima della determinazione della sua efficacia e della sua sicurezza. A questa domanda gli autori, a quanto pare, rispondono che la determinazione di alcuni fatti positivi nel loro studio osservazionale sarebbe propedeutica a successivi studi clinici, cioè consentirebbe di testare efficacia e sicurezza senza rischiare la futilità.

Quali sarebbero questi fatti?

In breve, gli autori riferiscono di aver osservato che nei pazienti trattati entro 72 ore dai sintomi con il protocollo si osserva rispetto a quelli trattati meno una durata di sintomi dopo il trattamento che è minore, un numero minore di ospedalizzazioni ed un numero minore di morti – il tutto con buona significatività statistica, e al netto del fatto che le differenze su tutti i parametri di rischio più significativi fra i due gruppi confrontati (età, sesso, entità dei sintomi al momento del trattamento eccetera) non sono significative.

Purtroppo per loro, a volte la speranza di trovare risultati per il proprio protocollo preferito induce cecità di fronte a fattori confondenti tali, da invalidare interamente uno studio. Vi è, infatti, una ovvia differenza fra i due gruppi confrontati, ovvero la durata dei sintomi pregressi al momento del trattamento, durata che è diversa per disegno dello studio.

I pazienti trattati più precocemente avevano al momento del trattamento una media e una mediana di due giorni di sintomi pregressi; questo vuol dire che metà dei componenti di questo gruppo avevano al massimo due giorni di sintomi (minimo 1), e l’altra metà da due a tre giorni.

L’altro gruppo, invece, aveva una durata di sintomi pregressa che in media e in mediana era di 6 giorni; in particolare, metà di questi pazienti avevano sintomi pregressi in un intervallo compreso tra 6 e 9 giorni dall’inizio del protocollo, e nessuno sperimentava sintomi da meno di 4 giorni.

Ora, fin dalla prima definizione del percorso clinico dei pazienti affetti da COVID-19 è stato chiaro che, quanto più a lungo duravano i sintomi, tanto più probabile poteva essere un decorso peggiore; soprattutto, è interessante notare che per esempio il tempo medio di sintomi pregressi per i pazienti ospedalizzati è di circa 7 giorni, vicinissimo alla media della durata di sintomi pregressi del gruppo trattato più tardi nello studio.

Proprio intorno allo stesso giorno a partire dal manifestarsi dei sintomi, i pazienti che si aggravano mostrano infatti mediamente un peggioramento, come mostrato in un secondo studio sul New England Journal of Medicine.

La cronologia dell’infezione da Covid-19 nei primi casi di Wuhan (fonte: Lancet)
La cronologia dei sintomi di grave malattia da Covid-19 (fonte: NEJM)

Prosegue Bucci:

Ora, se, a parità di sintomi, in un gruppo ho messo malati che in media sono proprio al limite del tempo medio entro cui si manifesteranno i sintomi più gravi e si avranno le ospedalizzazioni, ed in un altro invece malati arruolati mediamente molto prima di quel limite, è difficile stupirsi del fatto che nei due gruppi, al di là di qualunque trattamento, si osservino esiti mediamente diversi.

In sostanza, malati con una storia pregressa di sintomi più lunga, hanno maggior probabilità di evolvere negativamente, in termini di ospedalizzazioni e di morte, e anche la loro guarigione può essere più lenta, per il semplice fatto che sto selezionando in partenza individui in cui la malattia con lo stesso livello di sintomi degli altri dura da più tempo.

Dunque, stupisce poco che il gruppo di malati trattati dopo con il protocollo fosse quello in cui la malattia, mediamente, ha un decorso peggiore: questo è infatti il gruppo in cui vi sono malati che sono tali in media da un tempo maggiore, con la stessa intensità di sintomi degli altri.

Per capirlo, possiamo immaginare di essere un fruttivendolo, e di dividere delle mele in due mucchi più o meno delle stesse dimensioni, ponendo in un mucchio mele che mediamente sono vecchie di 2 giorni, e comunque di non più di 3, ed in un altro mucchio mele in media vecchie di 6 giorni, non meno di 4 e fino a 9; difficile stupirsi se, dopo un certo tempo di osservazione, nel secondo mucchio osserveremo più mele marce. In questo caso, come per i pazienti COVID-19, l’esito non è indipendente dall’età media delle mele all’inizio, come per i pazienti dall’età media di malattia all’inizio del protocollo; anche se tutte le mele marciranno, mentre per fortuna non tutti i pazienti si aggraveranno o moriranno, il peso del tempo trascorso dall’inizio dello studio dei due gruppi nel determinare l’esito non può comunque essere trascurato.

La mancata considerazione di questo fattore rende lo studio citato soggetto ad un bias incontrollato, in grado di invalidare lo studio stesso; il disegno corretto avrebbe dovuto consistere nel selezionare pazienti con lo stesso numero di giorni pregressi di sintomi, ed in questi somministrare, prima o dopo, i trattamenti previsti dal protocollo da testare, confrontando poi con un terzo braccio privo di trattamento, ma trattato con i metodi standard attualmente in uso.

La fase zero, gli integratori e azitromicina

Gli integratori, come la vitamina C, risultano previsti nel cosiddetto «Trattamento domiciliare facoltativo in fase 0» presente nello schema del Comitato:

Uno degli autori dello studio, l’ematologo Paolo Bellavite, risulta essere consulente della società Vanda s.r.l. di Frascati (Roma), la stessa che produce uno degli integratori citati nello studio: l’Esperivit Q100. Un’informazione che viene riportata dagli autori nella sezione relativa ai conflitti di interesse:

Paolo Bellavite has a consultancy agreement with Vanda s.r.l. (Frascati, Rome), but he had no role in the treatments. Other authors have no competing interests to declare

L’integratore è citato nel capitolo relativo al trattamento:

Paolo Bellavite, in un articolo pubblicato a suo nome nel sito Sinistrainrete.info, cita espressamente la seguente nota su potenziali conflitti di interesse:

Paolo Bellavite ha un accordo di consulenza scientifica con Vanda s.r.l. (Frascati, Roma) ma non ha avuto alcun ruolo nelle decisioni sui trattamenti, se non quello di aver pubblicato in precedenza dei lavori sulla possibile utilità dei flavonoidi (es: https://www.mdpi.com/2076-3921/9/8/742 e https://www.intechopen.com/chapters/74748) cui il dr. Fazio si ispirò indipendentemente, basandosi su un criterio di validità scientifica. Tutti gli altri autori non hanno dichiarato alcun potenziale conflitto di interesse.

Nell’articolo di Sinistrainrete.info, Bellavite spiega che «il trattamento di base per tutti i pazienti consisteva in indometacina , aspirina in basse dosi, omeprazolo e un integratore alimentare a base di esperidina, quercetina e vitamina C». In caso di peggioramento delle condizioni cliniche, Bellavite spiega che venivano «aggiunti azitromicina e/o eparina a basso peso molecolare a dose profilattica e/o betametasone, secondo il giudizio clinico».

Conclusioni

I limiti riscontrati, in merito all’assenza del gruppo di controllo e le altre critiche degli esperti, rafforza ulteriormente quanto affermato con chiarezza dagli stessi autori, ossia che lo studio non conferma l’efficacia della terapia utilizzata dal Comitato.

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