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Il prof picchiato in un raid dopo la scuola a Napoli: «I mandanti? I genitori»

21 Febbraio 2022 - 06:21 Redazione
enrico morabito prof picchiato casavatore napoli
enrico morabito prof picchiato casavatore napoli
Enrico Morabito dice che sono stati i genitori a fargliela pagare per qualcosa. E cita alcuni episodi accaduti in classe

Enrico Morabito, docente della scuola media Antonio De’ Curtis di Casavatore in provincia di Napoli, ha denunciato sui social network di essere stato aggredito in un raid da alcuni giovani. Morabito ha anche spiegato che l’aggressione è collegata a un richiamo in classe nei confronti di alcuni alunni che stavano mantenendo un comportamento inappropriato. E oggi in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dice che era tutto organizzato: «La prova è che quando sono uscito dal portone, uno di quei cinque, quello che poi si è rivelato anche il più accanito, mi ha chiesto “sei tu Enrico?”, e alla mia conferma ha aggiunto: “Allora sei tu il professore della De Curtis”. Poi mi sono saltati addosso. Alla fine ero una maschera di sangue. Sono dovuto andare al Pronto Soccorso e ora eccomi qui, tutto incerottato».

Il professore racconta l’episodio mattutino che ha scatenato il raid: «I ragazzi erano scatenati. Entravano e uscivano dalla classe senza permesso, facevano capannelli parlando come se io non ci fossi. Addirittura alcuni si sono seduti sul davanzale. Li ho richiamati più volte e li ho anche avvertiti che se avessero continuato avrei fatto rapporto a tutta la classe, spiegando la gravità di una nota disciplinare. Alla fine non ho avuto alternative». Morabito pensa che qualcuno dei genitori gliel’abbia fatta pagare per qualcosa: «Forse non direttamente, magari incaricando qualcuno di picchiarmi. Stranamente la mattina alcuni dei ragazzi mi hanno detto “noi lo sappiamo dove sta la sua casa”. Non so cosa pensare».

Poi racconta altri episodi accaduti a scuola: una lettera mandata da un genitore che chiedeva il suo allontanamento perché avrebbe usato parole volgari e parlato di sesso. «A una bambina che mi ha parlato di Lgbt ho chiesto se ne conoscesse il significato e ho spiegato l’importanza del rispetto tra tutte le persone. Ma questo non è parlare di sesso, è parlare di civiltà». C’è chi accusa di essersi presentato ai ragazzi dicendo “sono gay”: «Ma perché avrei dovuto farlo? Io quando mi presento dico il mio nome, non il mio orientamento sessuale». Chi l’ha aggredita le ha detto anche qualcosa? «Di non tornare più a scuola e di non denunciare. Ma io ho denunciato. Per quello che ho subìto e per tutelare i ragazzi. Se hanno genitori che li educano così che speranze possono mai avere?».

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