Ucraina, il contingente italiano è già ai confini della Nato: «Solo pochi addestrati alla guerra, per gli altri ci vorrà più di un anno»

La preoccupazione delle associazioni di militari e le conferme dello Stato maggiore in caso di escalation: «La formazione bellica è rimasta indietro»

La porta della guerra è dietro l’angolo e i militari italiani lo sanno bene. Sebbene un coinvolgimento diretto in Ucraina sia stato escluso in ogni sede, con la vicinanza del conflitto ai confini della Nato, l’esercito italiano si sta ovviamente preparando in caso di peggioramento dello scenario, ovvero di un incidente che costringa a qualche forma di difesa o reazione, così come prevede l’articolo 5 dell’Alleanza atlantica. L’innalzamento del livello di attenzione riguarda prima di tutto i circa duecentocinquanta militari del 2° Reggimento alpini della Brigata Taurinense che sono attualmente in Lettonia, alcuni dei quali erano partiti alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina. A stretto giro, entro la prima settimana di guerra, è stato elevato il livello di mobilitazione degli uomini dei reparti speciali, ovvero Col Moschin, incursori della Marina (Comsubin), Task force 45.


L’altro fronte pronto è quello dell’aviazione: a Costanza, in Romania, erano già presenti 4 caccia Eurofighter che sono poi arrivati ad 8. Come ha spiegato in commissione Difesa, due settimane fa, il capo di stato maggiore dell’Aeronautica Luca Goretti, i circa 150 uomini a Costanza sono anche il contingente che al momento è più a rischio incidente: «Potrebbero esserci dei tentativi di fare entrare i velivoli nel territorio ucraino, il che sarebbe la fine», ha ammesso. Mentre il capo di Stato Maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone, ha specificato che le unità in «elevato stato di prontezza» al momento sono 1350, anche se, secondo alcune indiscrezioni, l’impegno italiano potrebbe arrivare a 4000 uomini.


La carenza di addestramento

Ansa/Matteo Guidelli | Esercitazione Nato a Riga. In primo piano il comandante del contingente italiano, il tenente colonnello degli Alpini Claudio Blardone, 11 marzo 2022.

Oltre alla valutazione di quanti sarebbero gli uomini effettivamente impiegati sul campo, a destare preoccupazione in queste ore è anche la qualità dell’addestramento del contingente italiano. L’Italia è seconda solo agli Stati uniti per numero di uomini impiegati nei “teatri” – come dicono i militari – che vedono la presenza dell’Alleanza atlantica sul campo. Ma nonostante il massiccio impegno all’estero, la formazione specifica per il “warfighting” negli ultimi anni, stando alle voci degli stessi militari e di alcune associazioni a loro vicine, è stata piuttosto carente. Le ragioni sono tante: da un lato, perché una parte di loro è stata coinvolta in missioni di sostegno alle esigenze di protezione del territorio, in particolare  nell’operazione “Strade sicure” che anche attualmente impegna circa 7000 uomini. Di questi, un buon numero è fatto da giovani al primo anno di Vfp (volontario in ferma prefissata) ma l’iniziativa, ammettono anche dallo Stato maggiore della Difesa, ha rappresentato un elemento di distrazione dall’addestramento “specifico” militare. Gli alpini in particolare, che nel contesto attuale sono considerati decisivi, impiegano una parte rilevante delle proprie risorse nel preparare i Casta, olimpiadi invernali quest’anno assorbite in una esercitazione militare: da luglio a febbraio ogni reparto distacca 20 o 30 persone per una preparazione atletica che dura otto mesi.

Anche quando presenti in teatri bellici, poi, gli italiani si sono trovati soprattutto in contesti in cui l’avversario aveva uomini ed equipaggiamenti nettamente inferiori a quelli occidentali, spesso non in primissima linea e in alcuni casi con missioni di peacekeeping (il che, tra l’altro, ha condizionato anche gli investimenti sul tipo di armamenti acquistati e impiegati nel corso degli anni). Secondo più fonti, infine, la preparazione bellica negli ultimi anni sarebbe scivolata in coda alle priorità, forse anche perché il coinvolgimento in conflitti veri e propri con eserciti di pari livello veniva considerata altamente improbabile. Di certo fa riflettere che la circolare pubblicata il 15 marzo scorso, quella in cui si parlava di limitare i congedi e che tanto ha fatto discutere per il collegamento con la situazione ucraina, specificava di dare priorità ad un addestramento «orientato al warfighting».

Come si ammette anche dalle parti dello Stato maggiore, se in quella lettera si chiarisce che quell’addestramento è una priorità è perché al momento non viene considerato così centrale: «I 1350 uomini attualmente allertati sono pronti e con addestramento specifico, la preparazione al warfighting di altri reparti richiede almeno un anno di tempo. Sono cose che sanno fare ma che non fanno da un po’, oltre a questo ovviamente dovrebbero cambiare anche i tipi di mezzi impiegati».

Lacune nell’impiego delle armi

Ansa | Il contingente italiano in Lettonia, il 24 febbraio 2022

Che l’addestramento al combattimento, quello che in gergo chiamano appunto warfighting, sia stato lasciato indietro è una convinzione anche di Carlo Chiariglione, maresciallo in passato appartenente alla Brigata alpina Taurinense, con alle spalle 30 anni di servizio, parte dei quali trascorsi nelle forze speciali dei “Ranger” italiani, istruttore di tiro militare e civile e di combattimenti in centri abitati: «Posso, ad esempio, dire per esperienza personale maturata negli anni, anche in qualità di istruttore di tiro militare di diversi reparti, che tra il personale ci sono evidenti lacune addestrative riguardo alla necessaria e vitale padronanza nel maneggio ed impiego delle armi,  elemento assolutamente vitale in una situazione di guerra come è attualmente quella dell’Ucraina. E questo non per carenze riferibili ai militari italiani che per potenzialità e qualità umane e professionali avrebbero da insegnare a gran parte degli eserciti stranieri, ma per una inappropriata gestione da parte di alcune linee di comando che non hanno posto in essere addestramenti efficienti ed efficaci.

Per troppo tempo l’esercitazione al warfighting è stata considerata un obbligo burocratico da adempiere, da smarcare, sapendo che i militari sarebbero stati impiegati in altro.  E questo, a mio avviso, rischia di portare, come già successo in passato, ad incidenti anche mortali per fuoco amico o per improprio uso delle armi tra il personale in servizio. Ora che il contesto rischia di cambiare rapidamente non è detto che gli uomini siano pronti, come hanno sottolineato anche ex vertici militari da poco andati in quiescenza».

Chiariglione è presidente dell’Associazione di categoria Assomilitari e spesso ha denunciato problemi e malfunzionamenti incluso il basso livello addestrativo nei vari reparti (in seguito alle sue dichiarazioni il ministero della Difesa l’ha denunciato e ne è nata una lunga controversia legale che però sta, almeno fino ad ora, dando ragione al maresciallo): «Mi sembra improbabile che dal 24 febbraio ad oggi si possa essere colmato un gap addestrativo del genere, anche perché tra le cose più importanti ma anche più difficili da ottenere in un soldato c’è la cosiddetta R.a.i., reazione automatica immediata. L’esercitazione costante e il più possibile realistica, quindi quanto più vicina alla realtà tattica e psicologica vissuta sui campi di battaglia, punta a rendere automatiche, non pensate, reazioni e uso delle armi che seguendo il solo istinto umano non lo sarebbero, tantomeno sotto pressione o stress. E per ottenere la R.a.i ci vogliono tempo e addestramenti veri, non fatti solo perché lo prevede il manuale. Ricordo che in Italia molti addestramenti si svolgono ancora senza sparare colpi ma urlando “fuoco, fuoco, fuoco”, cosa che incide non solo sulla verifica della capacità di andare a bersaglio, ma anche sull’aspetto psicologico. Ripeto, in passato sono già morti militari italiani che erano stati mandati in teatri operativi con una preparazione probabilmente non adeguata al contesto».

Recentemente, il nome di Chiariglione è diventato famoso in tutta Italia perché è firmato da lui l’esposto, di cui ha parlato il Fatto quotidiano, che ha messo sotto accusa l’ex comandante delle Truppe Alpine, generale di Corpo d’Armata Claudio Berto e il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo, che avrebbe chiesto di favorire il figlio, Federico Paolo Figliuolo. Sulla vicenda è in corso un’inchiesta della magistratura di Bolzano: «Ho denunciato nel tempo decine di illeciti che riguardavano anche altre figure, la mia fiducia nell’Esercito in quanto istituzione resta», chiosa Chiariglione.

Gli armamenti

Anche Luca Comellini, segretario politico del Pdm, Partito dei militari, si dice preoccupato dall’attuale livello di preparazione dell’esercito italiano: «Dal 2009 in avanti, la riorganizzazione dell’esercito e la riduzione del numero di arruolati, a mio avviso frutto anche delle pressioni di Finmeccanica, ha portato a modificare le priorità negli investimenti e a rendere strutturale il “precariato” tra i militari. L’impiego in servizi sul territorio, senza tra l’altro addestramenti specifici, non ha migliorato il quadro. Le esercitazioni per il warfighting sono l’ultima delle priorità per i militari italiani di oggi ed è difficile recuperare i livelli di preparazione sufficienti ad un invio di truppe sul campo. E’ vero, siamo la nazione dopo gli Usa che partecipa con più uomini alle missioni, ma è anche vero che siamo sempre stati impiegati con funzioni di retroguardia. Secondo le mie valutazioni solo alcuni reparti di eccellenza, come il Comsubin o il Col Moschin possono essere effettivamente pronti al contesto ucraino, ma stiamo parlando di un totale di massimo 800 uomini, non di più».

A rendere il clima teso, poi, è stata anche la scelta di secretare le informazioni su tipo e numero di armi che stiamo inviando in Ucraina. Una linea di prudenza che però in occidente è stata adottata solo dall’Italia. Come riferisce Libero nell’edizione del 29 marzo, la preoccupazione anche dei vertici è che oltre agli anticarro di cui l’Italia è dotata in numero consistente, si stiano inviando dotazioni di eccellenza e al momento limitate, come i missili israeliani Spike che consentono di lanciare anche da una distanza inclusa tra i 2 e gli 8 chilometri dall’obiettivo. L’aumento delle spese militari di cui si parla attualmente, potrebbe portare a fare nuovi investimenti su mezzi che per anni non sono stati oggetto di investimenti, perché non considerati centrali in quello che i militari facevano effettivamente sul campo (ad esempio nel caso dei cingolati con cannoni a lunga gittata). Ma anche per questo ci vorrà tempo. E invece la tensione ai confini della Nato corre molto veloce.

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