Mikhail Sergevic Gorbaciov è morto all’età di 91 anni. È stato forse uno dei leader più importanti dell’ultima parte del Novecento: è stato l’uomo che ha tentato di portare le riforme nell’Unione Sovietica, è stato l’uomo che l’occidente ha riconosciuto come il primo interlocutore credibile dopo le illusioni e le delusioni dell’era di Nikita Krusciov, è stato il grande innovatore, l’uomo della glasnost, della perestroika, del disperato sforzo per far arrivare l’Unione Sovietica che era stata di Breznev di Andropov e di Cernienko ad essere una potenza al passo con il progresso, la ricchezza e l’innovazione delle democrazie, in una sfida che non era più di contrapposizione ma di collaborazione. I passaggi fondamentali (e illusori) furono i due vertici con Ronald Reagan a Ginevra, nel 1986, e a Reykjavik nel 1987: lì gli accordi, la possibilità di disarmo, la fine della sfida che aveva portato più volte il mondo nel secondo dopoguerra sull’orlo di una crisi irreparabile, tutto sembrava a portata di mano.
Poi però il Gorbaciov tanto sfolgorante sotto i riflettori dell’Occidente dovette far fronte alla sfida interna, di un sistema-paese che non accettava che l’avventura sovietica finisse così, 70 anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre: il tentato golpe del 1991, l’invalersi sulla scena di Boris Yeltsin, il traumatico passaggio delle consegne. Tutto questo segnò la fine dell’era di Gorbaciov. Da allora però fino a oggi circondato dall’affetto di quella parte dell’Occidente che aveva sperato in lui: fu quella la sorte di Mikhail Gorbaciov, essere più rispettato e amato all’esterno dei confini prima dell’Unione Sovietica, poi della Confederazione degli stati indipendenti e infine della Russia, che all’interno. Dove molti lo consideravano poco meno che un dilapidatore di quella che era stata la grande avventura della potenza chiamata Urss.
August 30, 2022
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