Siccità di Paolo Virzì, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia e in sala dal 29 settembre con Vision Distribution, è un film fatto di voci e situazioni, ambientato in un futuro prossimo e terribile, in una Roma capitale ma isolata, popolata da personaggi incredibili e profondamente segnati. Per Emanuela Fanelli – classe 1986, romana, comica amatissima della trasmissione Una Pezza di Lundini – prendere parte a questo progetto è stato il coronamento di un sogno. «La prima volta che ho letto la sceneggiatura non conoscevo il resto del cast», dice, «e quindi, all’inizio, ho fatto un po’ di fatica a immaginare i vari volti. Mi è piaciuto questo mosaico di ruoli, questo racconto corale tenuto insieme da un unico film. E mi è piaciuto il mio personaggio».
Perché?
«Perché è difficile, e perché sembra una persona vera. Non ho fatto molti film, lo so; ma è riuscito a colpirmi profondamente».
È ancora così raro trovare parti come questa?
«Probabilmente spesso non c’è tempo per approfondire la scrittura di alcuni ruoli; e questa cosa vale soprattutto per i personaggi femminili. Che vengono ridotti sempre a un solo aggettivo: arrabbiata, delusa, sola, triste. In Siccità il mio personaggio cambia costantemente. Io mi sono impegnata nel renderlo credibile».
Com’è stato essere diretta da Paolo Virzì?
«Lavorare con lui è sempre stato uno dei miei sogni. Sono una sua grande ammiratrice; adoro il suo modo di raccontare, e soprattutto amo il suo modo di guardare le persone. Senza giudicarle. Un po’ mi affaticano quei film in cui si nota il dito puntato, in cui c’è sempre il tentativo di spiegare qualcosa, di imporsi, di dare una direzione da seguire. In Siccità c’è un quadro ampio e disperato di personaggi. Quando li rivedi, noti l’assenza di amore nella loro vita e la loro fragilità».
Qual è il suo film preferito di Virzì?
«È dura. Forse, però, quello che ho più amato, anche perché l’ho visto tantissime volte nel corso degli anni, è Ferie d’agosto. Anche lì c’è umanità variegata».
Prima la tv, poi il cinema. Ora che cosa farà? Continuerà a recitare?
«Io ho sempre fatto l’attrice. In tv, ho lavorato anche come autrice. Personalmente non mi pongo limiti. Non escludo di poter fare qualunque cosa. Mi piace recitare e mi piace scrivere».
Abbiamo bisogno di più film come Siccità?
«Servono perché questi sono film che ti mettono in discussione, che ti pongono delle domande e che, specialmente, ti fanno pensare. E oggi non amiamo riflettere. In Siccità c’è la crisi climatica, sì, ma c’è pure la crisi che stiamo attraversando come esseri umani. Spesso non vediamo gli altri, e non li riconosciamo per quello che sono».
Torniamo al tema dell’empatia.
«Siccità parla molto di questo. Della mancanza di amore in tutte le sue forme. Il mio personaggio vuole solo sentirsi amata. Non solo da un uomo, ma anche dalla sua famiglia, da suo padre e sua sorella. La mancanza di empatia è un tema molto attuale. Spesso, è vero, c’è il rischio di fraintendere. Crediamo di essere vicini, di stare insieme, di condividere. Ma quando dobbiamo fare qualcosa di concreto, quando dobbiamo davvero avvicinarci, non agiamo».
Qual è l’aspetto più bello del suo lavoro?
«Poter riprendere fiato, ogni tanto, da sé stessi. L’opportunità di cambiare, di vivere un’altra vita ed essere qualcun altro. Con questo mestiere, puoi fingere, puoi comportarti in un modo particolare ed essere diverso. In Siccità, ho imparato anche a conoscermi meglio, a usare parti di me stessa per costruire il mio personaggio. Recitando, a volte, puoi liberarti».
E invece qual è l’aspetto più brutto?
«Quando mi deludo da sola. Quando mi vedo e disattendo le mie stesse aspettative. Quando, secondo me, non sono all’altezza. E poi c’è l’esposizione agli altri, al loro giudizio. Per proteggermi, evito di mostrare la mia vita privata. Preferisco così. Non voglio dare l’illusione a degli sconosciuti di essere miei amici. Meglio deludere degli sconosciuti che deludere degli amici».
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