La sfida del regista Mezzapesa: «Racconto un’Italia feroce e arcaica. Elodie? Non c’è mai stata un’alternativa» – L’intervista

«Ti mangio il cuore» è stato presentato nella sezione Orizzonti alla mostra del cinema di Venezia. Il regista, classe 1980, racconta la sua genesi a Open

La storia di Ti mangio il cuore, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia e al cinema dal 22 settembre con 01 Distribution, comincia per caso. Pippo Mezzapesa – classe 1980, nato a Bitonto – l’ha scoperta nel 2007. E da quel momento, racconta, non è riuscito a pensare ad altro. È stato costretto a metterla da parte perché non aveva né le risorse, né i mezzi per poterla sviluppare. Quando però ha incontrato Carlo Bonini e Giuliano Foschini e ha letto il loro libro, edito da Feltrinelli, ha deciso di riprovarci. Il suo film è fatto di carne e sangue: parla di famiglia, potere e male. Un male nero, oscuro, senza nome. Che unisce e appiattisce tutto, in cui i significati si sovrappongono, i rapporti si confondono e l’amore può diventare una maledizione. «Forse il mio non è proprio un film di genere», dice Mezzapesa. «Forse gioca con i generi, quello sì, e prova a sfuggire a confini e limiti. Quello che io volevo era raccontare un crime. Una storia con tinte forti e losche. Grazie all’esperienza che ho fatto in questi anni, ho scelto un approccio diverso, più emotivo».


In che senso?
«I personaggi di Ti mangio il cuore sono fragili, vivono un amore che non dovrebbero vivere, e per questo motivo scoppia una guerra. Quindi sì, c’è il genere, ma c’è anche una visione lontana dal genere».


C’è ancora spazio per questo tipo di racconti in Italia?
«Assolutamente. Continuano a esserci dei tentativi, e si continua a sperimentare. La cosa più importante, però, è un’altra: è cercare di dire qualcosa di nuovo, di unico, capace di instaurare un dialogo con il pubblico».

Perché ha deciso di girare Ti mangio il cuore in bianco e nero?
«È stata un’esigenza dettata dalla stessa essenza del film. Un’essenza racchiusa anche nel titolo. Da una parte Ti mangio il cuore suona come una minaccia di morte; dall’altra, però, può essere pure una violenta dichiarazione d’amore. Il contrasto sta nella terra in cui la storia è ambientata, e nella divisione che separa le famiglie e i vari personaggi. Ho sempre visto questo film così, in bianco e nero».

Uno dei temi più importanti è la vendetta.
«In questo film c’è l’ineluttabilità del male; si parla di inadeguatezza e di aspettative. Si innesca un processo di autodistruzione che porterà alla fine di tutto. Allo stesso tempo c’è anche una spinta di crescita. Oltre il baratro, i personaggi ritrovano loro stessi. Anche se per pochissimo».

Come mai ha scelto Elodie per la parte della protagonista?
«La storia è partita con lei. Non c’è mai stata un’alternativa. Ho parlato con Nicola Giuliano, il produttore del film, dei nomi per il cast. E quando siamo arrivati alla protagonista, ho pensato di allargare gli orizzonti e di pensare anche ad altri contesti. Mi è venuta in mente Elodie, che è un’icona pop certo, ma anche una donna straordinaria, con un lato umano molto forte».

Com’è andata sul set?
«Elodie si è gettata immediatamente in questo progetto, prendendo anche un bel rischio. Ci ha creduto, e ci ha creduto tutta la produzione».

Il regista Pippo Mezzapesa sul set di Ti mangio il cuore (Sara Sabatino)

Una delle cose che colpiscono di più di Ti mangio il cuore è la caratterizzazione dei personaggi secondari.
«Abbiamo provato a scrivere dei ruoli definiti, quasi archetipici. Il re che è pronto a deporre le armi e cerca un erede; il manovratore, il mentore, la madre. Ma non li abbiamo creati. O almeno, non li abbiamo creati partendo da zero. Vengono direttamente dalla realtà, dalla cronaca. Ed è proprio nella realtà che si celano gli elementi più importanti di questo film».

È difficile trovare la storia giusta?
«Non siamo noi a trovare le storie, sono loro, alla fine, a cercarci. Spesso, quando devo scegliere un nuovo progetto, mi lascio guidare dalle emozioni. Ci sono storie che quando le ascolti sono folgoranti ma che dopo un po’ di tempo ti abbandonano. Perdono consistenza. Altre storie, invece, non ti mollano mai. Né all’inizio né durante la lunga fase di scrittura. Serve imparare ad aspettare».

Suona come un’ossessione.
«Per fare questo lavoro bisogna essere ossessionati. Non c’è l’immediatezza che hanno altri mestieri artistici, e per finire un film possono passare tanti anni. L’ossessione riesce a tenere tutto insieme».

Il mondo di Ti mangio il cuore è un mondo che appartiene al passato o è un mondo che vive ancora oggi?
«Questo film è radicato nel presente; è una fotografia di una parte di Italia. Quella che abbiamo raccontato è una società feroce e arcaica, in cui la componente animale è fondamentale. Gli animali vengono usati per fare la pace, per minacciare, per lanciare messaggi di guerra».

Torniamo sempre lì, ai contrasti.
«Il rapporto tra passato e un presente è confuso, strambo. Il bianco e nero è un simbolo anche di questo: tiene insieme bene e male, e tiene insieme più linee temporali».

Immagine di copertina e all’interno dell’articolo: Sara Sabatino

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