Se i militanti del Partito democratico fossero i protagonisti di un film di Sorrentino, ai dirigenti del Nazareno chiederebbero: «Non ti disunire, non vi disunite». Mai appello fu più inutile. Già durante lo spoglio, mentre la segreteria di Enrico Letta bruciava per la sconfitta, gli esponenti delle correnti messe ai margini dal nuovo corso parigino danzavano «a piedi nudi sui bracieri ardenti». Il racconto del valzer Democratico, dove tutto gira intorno a se stesso e non ci si è resi conto che, fuori, il Paese aveva smesso di credere nella sinistra, inizia nella rossa Bassa padana. Anche qui, persino qui, nelle balere estive le coppie di anziani non ballano più al ritmo di Bella ciao. Bisogna guardare all’Emilia-Romagna perché i fortini rossi, puntellati di sezioni e circoli sopravvissuti al passaggio dal Pci al Pds, dai Ds al Pd, stanno crollando. La cartina dell’Emilia-Romagna post voto appare, parafrasando Pierluigi Bersani, un giaguaro blu con rarissime chiazze rosse. È stato smacchiato persino il collegio uninominale alla Camera di Modena: dopo 76 anni, per la prima volta a vincerlo è il centrodestra. La scelta di candidare il sindacalista Aboubakar Soumahoro non ha premiato la sinistra che, nell’ei fu collegio sicuro, resta in testa a Modena città, ma perde negli altri principali comuni come Sassuolo e Formigine. Bologna, invece, non si è dimenticata di essere “la rossa”. Pier Ferdinando Casini ha vinto contro Vittorio Sgarbi, ma a separarli nel collegio della città turrita è un 7% di preferenze. Destra e sinistra, qui, non sono mai state così vicine.
Emilia-Romagna fucina di segretari?
Il cerchio rosso si sta stringendo sempre di più intorno al capoluogo. Il Pd resta il primo partito dell’Emilia-Romagna, ma il centrodestra è la prima coalizione nella regione: 39% contro 36%, prende 10 collegi uninominali e ne lascia 6 al centrosinistra. Eppure, qui, c’è da sorridere: è l’unica regione dove i Dem sono avanti sugli altri partiti, in Toscana il primato è rimasto solo alla Camera, ma al Senato il Pd è sceso sotto il 20%. Il resto dell’Italia centro-settentrionale si è schierata con Giorgia Meloni, il Sud se lo sono presi i 5 stelle. Una débâcle inequivocabile. Bisogna guardare all’Emilia-Romagna perché è questo il campo dove giocano i due possibili successori di Enrico Letta. Il presidente della Regione Stefano Bonaccini e la sua vice, Elly Schlein, ribattezzata dalla stampa internazionale l’Alexandria Ocasio-Cortez italiana. Che poi l’Emilia-Romagna è un po’ lo specchio delle dinamiche nazionali. Con Schlein che deve lasciare la Regione dopo essere stata eletta alla Camera, la (ex) renziana Isabella Conti che punterebbe al suo posto, la sinistra che reclama un assessorato. Insomma, Bonaccini deve gestire il rimpasto regionale tenendosi in equilibrio tra spinte centriste e pretese sinistre.
Per la segretaria post-lettiana, lui è il più quotato degli almeno quattro nomi che l’anima riformista dei Dem ha come riferimento: occhi puntati sul sindaco di Pesaro Matteo Ricci, sul collega fiorentino Dario Nardella e sul presidente dell’Anci, il barese Antonio Decaro. A sinistra del partito, anche se la trentasettenne ha scelto di non iscriversi al Pd, si valuta la carta Schlein. Il padre fondatore Romano Prodi investe da tempo sulla sua ascesa, anche se pubblicamente afferma che non appoggerà nessun candidato alla segreteria. Il figlio politico di Beniamino Andreatta, leggasi Enrico Letta, la stima. E lo schema democristiano si chiude intorno alla «coraggiosa» di Lugano. La sua possibile candidatura, però, è indigesta agli ambienti romani almeno quanto quella di Bonaccini. È vero che la sinistra interna al Pd fatica a trovare un nome, ma sente l’investitura di Schlein come un’imposizione. I capitolini Nicola Zingaretti, Goffredo Bettini e Claudio Mancini non starebbero mostrando entusiasmo per un’eventuale candidatura di Schlein: se all’estero è vista come la leader più a sinistra della sinistra italiana, dal Tevere appare come un membro estraneo alla cricca che ancora vede in Giuseppe Conte l’interlocutore ideale del Pd.
La batosta dei big romani e le turbolenze meneghine
Dopo essere state commissariate da Letta, le correnti vogliono tornare a contare. Certo, la sconfitta alle elezioni politiche ha fatto male a tutte le aree del Pd, ma è servita ad accelerare il cambio di segretario: il prossimo, sarà il dodicesimo in sedici anni di vita del partito. A Roma e nel Lazio, diversi big del partito hanno preso una batosta inaspettata. Si leccano le ferite per la mancata elezione la riformista Patrizia Prestipino, campionessa di preferenze ma messa quarta in lista, Monica Cirinnà, di area bettiniana e candidata in un collegio perdente e il segretario nazionale dei socialisti Vincenzo Maraio. Andrea Casu, longevo segretario romano del Pd di Roma, molto apprezzato da Letta e che è alla guida del partito capitolino da quando, al Nazareno, comandava ancora Renzi, è stato ripescato per il rotto della cuffia nel riconteggio che il Viminale ha fatto nel pomeriggio del 28 settembre. Ad ogni modo, un fallimento per tutte le correnti, ma che servirà alle correnti per tornare ad avere il proprio peso nel nuovo corso del partito.
Nel Lazio come in Lombardia, i risultati delle elezioni politiche influiranno sulle scelte che il Pd dovrà fare in vista delle regionali della prossima primavera. E se Roma piange, Milano non ride. Carlo Cottarelli, che sembrava essere il candidato in pectore di Letta per Palazzo Lombardia, dopo la sconfitta nell’uninominale di Cremona – doppiato nei voti da Daniela Santanchè -, adesso è in forte discussione. L’europarlamentare milanese dei Dem, Pierfrancesco Majorino, dopo l’esito del voto nazionale ha invocato le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alle regionali. Ed è naturale, sotto la Madonnina, guardare al Terzo polo come risorsa di coalizione e non come avversari. Alle comunali del 2021, la lista del Pd raccolse il 33% dei voti. Il Terzo polo – allora si chiamava lista “I riformisti “- ottenne il 4%, esprimendo due consiglieri comunali contro i venti del Pd a sostegno di Beppe Sala. Un anno dopo quella tornata elettorale, nella città di Milano, il Pd ha retto e ha preso il 26% dei voti, attestandosi come primo partito cittadino. Il Terzo polo, però, ha quadruplicato i consensi, schizzando al 16% su base cittadina.
C’è da aggiungere che dei tre uninominali vinti su Milano dal centrosinistra, due sono andati a candidati esterni al Pd: Benedetto Della Vedova e Bruno Tabacci. Il terzo uninominale è stato vinto da Antonio Misiani, che è del Pd, ma di Bergamo. I circoli di Milano sono in fermento: il candidato ideale della base milanese era stato individuato nel consigliere più votato alle comunali del 2021. Pierfrancesco Maran, 9 mila preferenze. C’era molta unità su di lui. Il gruppo consigliare del Pd a Palazzo Marino, attraverso una lettera, aveva chiesto alla segreteria di candidare un membro del consiglio comunale. Tutti gli indizi portavano a Maran, ma gli è stata preferita Silvia Roggiani, scelta da Letta per guidare i presunti 100 mila volontari della campagna elettorale Dem di queste elezioni. Maran, intanto, è sceso in Emilia-Romagna per partecipare a un evento insieme a Bonaccini. Manovre del Nord riformista per provare a prendersi la segreteria?
A Letta non è riuscita nemmeno la mossa di schierare nella campagna elettorale i due governatori che, negli ultimi anni, sono stati una sicurezza per i consensi del Pd. In Puglia e in Campania i Dem si sono assestati come terza forza politica, alle spalle di M5s e FdI. In quella battuta del presidente Vincenzo De Luca, sul palco di Piazza del Popolo, c’è la sintesi di come buona parte del Pd guarda a Letta: «Non mi sento di dire che offriamo un segretario scoppiettante, pirotecnico. E vabbuò, non ce l’ha». Si annuncia invece scoppiettante la riemersione delle correnti per la gestione del partito, tra chi lavora per il ritorno dei riformisti al Nazareno, chi non ha mai smesso di dialogare con Giuseppe Conte. E infine c’è anche chi, come Letta, ha mostrato ancora una volta la rara eleganza di sapersi fare da parte. Senza disunirsi.
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