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Willie Peyote: «Gli artisti che mischiano politica e pubblicità sui social? Non sono credibili» – L’intervista

16 Ottobre 2022 - 16:19 Gianluca Brambilla
A 37 anni e con cinque album all’attivo, il cantautore torinese a Open: «Se non è l’unica cosa che pensi di poter fare nella vita, forse non vale la pena rischiare così tanto. Parafrasando Bukowski, non servono altri autori mediocri»

«Nichilista, torinese e disoccupato. Perché dire rapper fa subito bimbominkia e dire cantautore fa subito Festa dell’Unità». Si definisce così Willie Peyote, 37 anni, all’anagrafe Guglielmo Bruno. Il suo primo album – Non è il mio genere, il genere umano – è stato pubblicato nel 2013. Da allora, Willie Peyote ha messo all’attivo altri quattro dischi – l’ultimo, Pornostalgia, uscito quest’anno – e nel 2021 ha partecipato al Festival di Sanremo con Mai dire mai, brano con cui si è aggiudicato il Premio della critica. In pochi anni Willie Peyote è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel panorama musicale italiano con uno stile originale, cinico e sempre pungente. A OpenTalk ha raccontato il suo rapporto con Torino, ricordato la sua vita da impiegato al call center e si è tolto qualche sassolino dalla scarpa commentando le elezioni del 25 settembre.

Il tuo primo album – Non è il mio genere, il genere umano – è uscito nel 2013. Dopo quasi dieci anni, non è ancora il tuo genere?

«Sono invecchiato, quindi sono un po’ meno tranchant nei giudizi. Però sì, credo di essere più o meno la stessa persona. Non mi ci rivedo ancora granché nel genere umano, ma ho imparato a farmelo andare bene».

In questi anni hai fatto altri quattro dischi. Guardando indietro, qual è la cosa che ti accorgi di aver cambiato di più?

«Sicuramente, rispetto al primo disco, credo di aver coniugato e raccontato la rabbia in modo diverso e più maturo. Dai 28 ai 37 anni si cambia parecchio. Ho semplicemente trovato un altro modo per convogliare più o meno le stesse sensazioni di allora. Quando ho fatto quel disco lavoravo ancora al call center e facevo un’altra vita. Per forza di cose sono cambiato, ma credo comunque di aver seguito un percorso coerente».

C’è qualcosa invece che è rimasto invariato fino a oggi?

«Ci sono alcuni brani di quel primo disco che facciamo ancora dal vivo, come Turismi. Da allora siamo cambiati tanto dal punto di vista musicale, anche se nella mia testa l’ultimo disco che ho fatto è molto vicino al primo. Sono cambiate le persone con cui lavoro, ad eccezione di Cava, e anche la nostra conoscenza del mestiere. Il risultato finale, però, non credo che sia così lontano».

In Occhiali da Luna, brano di Murubutu, canti: “Io non so cos’è l’ispirazione / Mi trova lei a sua discrezione”. Come nasce nella tua testa una canzone?

«Dipende. Alcuni brani si scrivono da soli a partire dalla base, altre volte ho un’idea in testa e cerco di applicarla finché non trovo un vestito giusto. Non seguo un modus operandi standard, perché essere troppo schematico mi metterebbe ansia. È difficile però che io mi svegli la mattina e dica a me stesso: “Oggi scrivo”. Devo avere qualcosa che mi spinge a farlo. Se mi devo mettere davanti a un foglio bianco solo perché è il mio lavoro, faccio fatica a trovare l’ispirazione».

Qualche anno fa sei stato chiamato a reinterpretare Il bombarolo di Fabrizio De André. Che esperienza è stata?

«In realtà mi era stato solo chiesto di fare una cover, poi io ho avuto questa brillante idea di riscrivere De André. Confesso che era un pensiero che avevo in mente già da tanto tempo. Perciò, quando mi è arrivata questa proposta, ho chiesto il permesso di reinterpretare la canzone. Il ragionamento che ho fatto è stato questo: non sono capace di cantare De André come sarebbe giusto fare. In più, trattandosi di un artista così importante per la musica italiana, l’hanno già fatto tutti. Non volevo fare una cosa già fatta, fuori contesto o che mancasse di rispetto a lui. Perciò mi sono studiato le antologie di quel brano e ho cercato di raccontare una storia simile alla sua, però applicata al mondo di oggi».

Credi che ci sia un legame tra il cantautorato e il rap?

«Ci sono sicuramente dei punti di contatto, soprattutto per come abbiamo vissuto le origini del rap in Italia. All’inizio degli anni Novanta, il rap era un genere schierato politicamente, cresciuto nell’ambiente dei centri sociali. Ma non sono certo il primo o l’unico ad aver reinterpretato il cantautorato in chiave hip hop. Altri artisti, come Coez o i Comacose, hanno fatto qualcosa di simile».

Nel corso della tua carriera hai spaziato tra diversi generi: rap, indie, cantautorato. Quali sono le influenze più grosse?

«Tutti questi generi musicali sono sicuramente parte di ciò che faccio. Aggiungerei poi la satira e la stand up comedy. Non potrei prescindere da alcuni autori comici come Giorgio Montanini, Michela Giraud, Emanuela Fanelli. Poi ce ne sono tanti altri con cui non ho collaborato ma di cui sono grande fan, come Luca Ravenna o Edoardo Ferrario. Musicalmente, una delle influenze più grosse è il primo Fabri Fibra. Continuo a citarlo e mandargli messaggi d’amore, ma non mi ha ancora risposto. Per quanto riguarda il rock inglese, farei i nomi degli Arctic Monkeys e degli Stroke. Gli artisti italiani che mi hanno ispirato poi sono tantissimi: senza Gaber, Buscaglione, Silvestri, Bersani o Paolo Conte non potrei fare quello che faccio oggi».

Qualche artista italiano o internazionale con cui vorresti collaborare?

«Tutti i nomi che ho fatto finora sono artisti con cui vorrei collaborare ovviamente. Nella scena musicale italiana, poi, ho moltissima stima di Tutti Fenomeni, che ancora non è molto conosciuto. Per collaborare con qualcuno, però, devono esserci le condizioni giuste. Quella con Fulminacci, per esempio, è stata una collaborazione molto funzionale perché si è anche trasformata in un’amicizia. Tendenzialmente collaboro con persone con cui sento un contatto umano forte».

Prima di avere successo con la musica, hai lavorato in un call center. Che ricordi hai di quegli anni?

«Viverli non è stato una pacchia, per usare un termine che va di moda oggi. Con il senno di poi, mi ha insegnato tanto sotto l’aspetto umano e professionale. Se non avessi fatto il formatore in un call center non sarei riuscito a trovare una chiave per cambiare il mio modo di scrivere e approcciare vocalmente la traccia. È stato grazie a quello se sono riuscito a farmi conoscere e riconoscere. Ora che è passato tanto tempo, posso dire che è stata un’esperienza senza la quale non sarei qui».

Chi era Willie Peyote prima di diventare Willie Peyote?

«L’unica differenza è che sono più sereno e tranquillo, perché ho avuto culo nella vita e ho realizzato ciò che sognavo di fare da piccolo. Per questo mi obbligo a essere più sereno e contento, perché sarebbe ingiusto nei confronti di chi fa una vita di merda. Per il resto, però, sono la stessa persona: sono soltanto incazzato in modo diverso. Frequento le stesse persone e gli stessi luoghi di prima, non mi è mai fregato niente di vivere i luoghi del jet set. Oltre al fatto che sono dieci anni più vecchio, è cambiata soltanto una cosa: sono meno in lotta con i miei mostri e con il mondo».

Come racconti in Che bella giornata, a un certo punto hai deciso di mollare il tuo lavoro e cambiare vita. Che consiglio daresti a chi oggi si trova nella stessa situazione?

«Non fatelo! (ride – ndr) Spesso mi capita di avere persone che mi dicono di essersi licenziate dopo aver ascoltato Che bella giornata. E provo sempre un mix di ansia e senso di riconoscenza. Io ho preso quella decisione perché sapevo che avrei voluto fare questo nella vita. Non mi sono cercato un “lavoro vero”, perché sapevo che mi avrebbe tolto tempo. Non essendomi mai concesso un piano B, è stata quasi una scelta obbligata. È anche vero, però, che ho avuto la possibilità di farlo. Ho tirato la cinghia e ho vissuto da squattrinato vero, ma sapevo che non sarei finito sotto un ponte perché ho una famiglia alle spalle e, in fondo, un altro lavoro come quello sarei riuscito a trovarlo. L’unico consiglio che mi sento di dare è questo: per fare una scelta del genere, bisogna avvertire un senso di urgenza. Se non è l’unica cosa che pensi di poter fare nella vita, forse non vale la pena rischiare così tanto. Parafrasando Bukowski, non servono altri autori mediocri. Io non mi sono mai immaginato di fare altro nella vita, anche se sono pigro e mi sono preso i miei tempi. Mi ero ripromesso che, se non ce l’avessi fatta entro i 30 anni, avrei appeso il microfono al chiodo. Quando mi sono licenziato ne avevo 29…».

Come hai vissuto le ultime elezioni?

«Non mi piace Giorgia Meloni, il suo linguaggio e il modo in cui ha gestito la campagna elettorale. Però non ho neanche paura che domani ci mandino con i treni piombati nei campi di concentramento. Bisogna essere un po’ più equilibrati nelle analisi. Detto questo, non mi stupisce come siano andate a finire le elezioni. Se sei l’unico partito di opposizione quando tutti gli altri sono ammucchiati al governo, è naturale che poi vinci. Probabilmente lo stesso succederà tra qualche anno con chi ora è all’opposizione. Quindi non mi fa così paura, a meno che Meloni si riveli un fenomeno o la nuova Margaret Thatcher. Quando succedono queste cose, però, io cerco prima di tutto di fare un’analisi sulle ragioni. A lamentarci siamo bravi tutti. Bisogna capire come un partito come quello di Meloni sia riuscito a ottenere in pochi anni un tale consenso popolare. E bisognerebbe anche chiedersi perché chi dovrebbe rappresentare classi come i lavoratori, gli studenti o i più deboli non rappresenta più nessuno».

Pensi che gli artisti che non sono d’accordo con la direzione politica che ha preso il Paese dovrebbero cambiare in qualche modo il loro ruolo?

«Io l’ho sempre fatto. E ho sempre detto quello che penso, anche sulla politica. C’è stato un periodo, però, in cui prendersela per esempio con Salvini era come sparare sulla Croce rossa. La protesta facile, fatta a prescindere, mi sta più sul cazzo del supporto incondizionato al regime. Non so cosa serva fare, ma di sicuro bisogna partire da un’idea. Lamentarsi un tanto al chilo e non avere una proposta alternativa, politica o artistica, è solo peggio.

A certi artisti o influencer viene rinfacciato di esporsi non per sincero interesse ma per logiche commerciali. Dove sta il confine, secondo te?

«Se usi i social per mandare un messaggio politico e nella storia successiva sponsorizzi un prodotto, non sei credibile come artista. La gente non è stupida e le elezioni hanno dimostrato che molti si sono rotti le scatole. È stato un voto di protesta anche nei confronti di queste figure. In certi casi sarebbe meglio stare zitti, altrimenti rischia di perdere credibilità il messaggio che si cerca di trasmettere».

Ti sei mai pentito di qualche tua uscita?

«No, anche se talvolta posso pentirmi dei toni. Così come posso pentirmi del fatto che non tutti capiscano il linguaggio del rap, che spesso è spigoloso e volutamente provocatorio. Se parliamo di politica, non ci sono uscite di cui mi sono pentito. Su tutto il resto… Sì, ho detto un sacco di minchiate».

Sembra che Torino sia sempre un po’ sullo sfondo delle tue canzoni. Qual è il tuo rapporto con la città?

«Torino fa parte di me. Non ho storie di strada e palazzoni popolari, ma crescere lì mi ha sicuramente influenzato. Sembra un paradosso, ma parlare di cose molto personali aiuta a raggiungere più persone e farle immedesimare in te. Se invece parli di cose troppo generiche, in fondo non parli di niente».

Come hai visto cambiare Torino in questi anni? Un po’ lo racconti anche in Porta Palazzo…

«Male, come quasi tutte le grandi città italiane, tranne Milano che però ha un problema di gentrificazione. Questo avviene perché siamo un Paese alla deriva e le grandi metropoli non possono che essere uno specchio di questa situazione. Le province non stanno meglio, ma hanno problemi diversi. Non bastano gli Europei o i Maneskin per pensare che siamo tornati a essere un Paese che ha qualcosa da proporre a livello internazionale».

Una figura in qualche modo collegata a Torino è anche Bart, il personaggio di Santa Maradona interpretato da Libero De Rienzo, a cui hai dedicato un brano del tuo ultimo album. Che ricordo hai di lui?

«Non ne ho così tanti, perché l’ho conosciuto solo qualche anno fa. Lui è stato per me un punto di riferimento proprio per il suo personaggio di Bart. Quando l’ho incontrato, ho scoperto che era molto aderente a quel personaggio anche nella vita reale. “Picchio” mi  ha insegnato che il coraggio vale più del talento. Sembra una cosa banale, e forse lo è, ma farlo proprio come concetto non è facile. Ho sempre ammirato il suo attaccamento all’arte e la capacità di dire “no” a tante cose. Aveva una sua idea molto coerente di come vivere l’arte e il cinema. Spero di aver imparato anche quello da lui. In fondo sono i “no” che dici nella vita a fare la tua carriera. Detto questo, avremmo potuto fare ancora un sacco di cose insieme».

Un’ultima domanda: ti vedresti mai a fare anche altro oltre alla musica?

«No, perché ho troppo rispetto per l’arte per mettermi a fare tutto senza saperlo fare. Questa tendenza dei cantanti a scrivere libri, per esempio, andrebbe fermata. L’idea che per vendere un libro serva essere già famosi, a prescindere dall’abilità di scrittura, è un’altra cosa che non aiuta a far andare meglio le elezioni. Non voglio essere l’ennesimo cantante che poi fa l’attore, lo scrittore, il comico, il conduttore. Per ora mi concentro a fare bene il mio lavoro, con cui già ho le mie difficoltà. Quando sarò troppo vecchio per salire su un palco, forse mi nasconderò in radio. Ma per il momento no, c’è ancora tempo».

Riprese, grafiche e montaggio di Vincenzo Monaco

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