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Dargen D’Amico: «Sono arrivato a Sanremo disperato. Perché il rap? Musica per disadattati» – L’intervista

03 Aprile 2022 - 10:11 Valerio Berra
Dopo essere riuscito a far indossare i suoi occhiali da sole a tutta l'orchestra dell'Ariston, l'artista si prepara al tour per il suo nuovo album: «Nei sogni nessuno è monogamo»

La prima cosa che ha fatto Dargen D’Amico appena si è seduto sul set di questa intervista è stato aggiustarsi gli occhiali da sole. Giusto per controllare che neanche una delle luci montate per illuminare la scena rivelasse il colore dei suoi occhi. Questa volta ha scelto un modello semplice, lontano da quelli a specchio usati negli scorsi anni ma più sobrio di quelli indossati sul palco dell’Ariston. Classe 1980, al secolo Jacopo D’Amico, con la sua Dove si balla Dargen è stato una delle rivelazioni dell’ultimo Festival di Sanremo. La sua canzone si è classificata nona al Festival ma è stata tra le più ascoltate sulle piattaforme di streaming. Ora Dargen si prepara a portare in tour il suo nuovo album Nei sogni nessuno è monogamo, prodotto da Universal Studio. A Open racconta cosa è successo dopo che è sceso dal palco dell’Ariston, dove alla fine del Festival è riuscito a far indossare gli occhiali da sole a tutta l’orchestra.

Partiamo dagli occhiali da sole. Perché li indossi sempre?

«Vengo da un epoca in cui lo spazio artistico musicale in Italia era ristretto a un numero molto piccolo di persone. In quell’epoca io non sarei riuscito a fare musica. Attorno al 2005 hanno cominciato ad allargarsi le possibilità, anche attraverso lo smercio della musica online. Le canzoni circolavano velocemente e così anche le foto degli artisti. A quel punto ho scelto di rimanere al periodo culturale precedente, quello in cui la musica la facevano solo gli artisti anche se mi piace sfruttare la tecnologia del mio tempo. C’è questa dicotomia. Emotivamente sono un ascoltatore di musica però tecnologicamente sono un produttore. Per non fare confusione tra le due cose tengo gli occhiali».

Quando hai iniziato a portare questa maschera?

«Preferisco separare la vita personale da quella professionale. Mentre scrivo non ho bisogno di tenere gli occhiali ma li uso per tutta la parte che io chiamo promozionale».

Quindi Jacopo D’Amico non usa mai gli occhiali da sole.

«No, no, non può usarli. Nemmeno quando c’è il sole. Deve rimanere all’ombra».

C’è un paio a cui sei molto legato?

«Si, sono legato ai primi modelli che ho prodotto io ma non so esattamente dove siano. Se non li ho persi sono molto affezionato».

Bocciofili e la musica

Il primo brano con cui sei arrivato al grande pubblico è Bocciofili, un brano con Fedez e Mistico in cui sostanzialmente parli di tette.

«Sì, è un brano nato per gioco ma è un gioco che mi ha classificato. È il motivo per cui sono andato a Sanremo: volevo levarmi questo brano che compariva sempre al primo posto nelle ricerche. Diciamo che è uno di quei giochi che possono diventare molto pericolosi».

Quanto sei cambiato da quel brano?

«Sono cambiato molto. Non farei più alcune cose. Bocciofili non mi dispiace neanche troppo ma ormai lo ho ascoltato troppe volte. È come la foto della carta di identità, alla fine tendi sempre a nasconderla».

Tu hai iniziato a fare musica nelle Sacre Scuole, una band con Gué Pequeno e Jake La Furia. L’inizio della prima ondata rap a Milano

«Sì, forse era già la seconda. C’era già stata una prima ondata arrivata anche in classifica ma alla fine il rap era una musica per disadattati che poi è il motivo per mi sono avvicinato».

Di cosa scriveva il primo Dargen?

«Ero molto affascinato dalla Golden Age dell’Hip Hop newyorkese, il nostro gruppo si chiamava Sacre Scuole e si rifaceva molto al manga Ken di Hokuto. C’era tanto battle rap in cui uno cercava di convincere chiunque lo ascoltasse, nel nostro caso praticamente nessuno, di essere il numero uno».

E di cosa scrive il Dargen di adesso?

«Ho accumulato bozze e idee che non ho fatto altro che riversare nei due mesi prima di Sanremo prima di fare il disco. È una sintesi brutale dei miei pensieri negli ultimi due anni. Le sensazioni sono rimaste legate molto più al mio Paese, cosa che non capitava prima».

Politica e cialtronate

A Sanremo hai invitato il pubblico a non fare una votazione cialtrona come quella per il Presidente della Repubblica.

«Siamo abituati a vivere in Italia ma mi stupisco ancora della mancanza di serietà della classe politica del nostro Paese, un Paese di cialtroni dove i rappresentanti più alti sono più cialtroni».

Nei tuoi pezzi compare spesso la cronaca italiana ma la citi quasi per caso, come se fosse un gioco, come nel brano Ustica del tuo ultimo album.

«Credo che siano corpi estranei, granelli di cronaca che mi rimangono attaccati sotto pelle e nel momento in cui scrivi a flusso libero rimangono nella scrittura. Quando apri il rubinetto escono fatti storici che ho vissuto. Questo fatto tipico italiano di verità dette e non dette mi ferisce ancora».

Fedez e direzione artistica

È stato il tuo primo Sanremo da cantante.

«Adesso non diciamo proprio cantante».

Un tempo si diceva che Sanremo fosse un palco per chi tentava l’ultima chance. Adesso è cambiato, anche grazie alla conduzione di Amadeus. Quanta paura avevi prima di arrivare?

«Paura no, ma ho sempre pensato che fosse un’esperienza da fare. Mi interessava curiosare nel cuore della musica italiana. Io l’ho fatto un po’ anche perché ero disperato, almeno dal punto di vista discografico. Il primo singolo dell’album non era stato preso in considerazione delle radio. E avevo bisogno anche di uscire dal torpore creativo. Avevo bisogno di provare un’esperienza che non fosse la mia. Non credo di essere la persona giusta per stare su quel palco».

Però ha funzionato, Dove si balla è stato fra i singoli più ascoltati.

«Non immaginavo che il brano potesse avere un riscontro così popolare. Ho avuto la fortuna di andare a Sanremo e ora ci sono le prime date. Ma non è così per tutti. Credo che manchi ancora la scelta di focalizzare l’attenzione sulla terapia dell’intrattenimento, sul bisogno di intrattenimento per la salute mentale di un popolo».

Fantasanremo. Tu sei uno dei cantanti che ha fatto più punti. Mi hai anche permesso di vincere nella mia lega.

«Abbandonerò la mia diplomazia. L’ho fatto perché mi hanno stressato tantissimo. Dopo la seconda sera, quando ho fatto dei punti, mi arrivarono messaggi di ringraziamento anche in lingue straniere, ad esempio in turco. Ho capito che questo evento del Fantasanremo era più grande di quello che immaginassi».

Tu sei anche un direttore artistico e lavori con cantanti come Fedez. Come vivi questo lavoro?

«Molto bene. A me piace lavorare alla musica anche in maniera artigianale come si fa in Italia perché è una piccola azienda. Io e Federico ci conosciamo da tanto tempo e ci siamo incontrati in un evento particolare all’inizio della pandemia. Federico è davvero una persona aperta, molto instagrammatico nel modo di vivere la sua vita ma è anche aperto alle possibilità che incontra. Una di queste sono stata io. Al netto di ciò, Federico mi ha affidato questo compito quando era disperato. Li aveva provati tutti, aveva litigato con tutti».

Perché torna sempre la disperazione nelle tue risposte?

«Credo di attirare la disperazione».

Scrivi anche per altri?

«Sì, e quando lo faccio cerco di andare loro incontro. Cambia rispetto a quando scrivo per altri anche perché è difficile che capiti di notte, lo faccio in orari che possiamo considerare d’ufficio ed è molto più sano come scrittura. Alle 2 o alle 3 di notte però ti vengono idee diverse».

«Amo Milano»

Nella tua musica rientra spesso Milano. Vivi ancora qui?

«Negli ultimi anni ho vissuto qui a periodi alterni. Ma nell’ultimo anno sì».

In Amo Milano dici che Milano è per l’Europa Italia e per l’Italia Europa. Come ha fatto questa città a diventare Europa per l’Italia?

«Io credo che si sia semplicemente rivoltato dall’interno all’esterno quello che Milano è sempre stata. Io sono cresciuto nella Milano degli anni ’90 e comunque avvenivano delle cose prima qui ma non solo per la musica, anche per il cibo e le scelte culturali. Milano è sempre stata abituati a cibarsi di tutto, anche delle persone che la vivono. Milano ti dà la possibilità di maturare molto rapidamente e anche la voglia di andartene molto rapidamente».

Questo album lo hai scritto a Milano?

«Gran parte del lavoro sì. In una cantina riadattata, in un posto milanese. Se fossi stato in un posto bellissimo in campagna, non sono sicuro che avrei potuto fare questo disco in due mesi».

Ultima domanda

Fra tutte le canzoni dell’album, forse sei già legato a Dove si balla. Guardando anche le altre, quale vorresti che le persone ascoltassero?

«Vorrei fare dal vivo Sangue amaro, era un tentativo di fare un brano un po’ teen e quindi è stato un esperimento divertente. Un brano a cui sono affezionato è anche Sei cannibale ma non sei cattiva. Ma sono 12 momenti cronologici del mio percorso. Quindi ascoltatelo, avrete 45 minuti. Non chiedete sempre consigli. Ci si mette lì e si ascolta».

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