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Dal 2035 solo auto elettriche nella Ue. L’urbanista Matteo Dondè: «Ecco perché non è la soluzione» – L’intervista

28 Ottobre 2022 - 18:06 Antonio Di Noto
Il teorico del concetto di "zona 30" commenta la decisione dell'Unione Europea e spiega perché i veicoli elettrici non cureranno i mali delle nostre città

Ieri sera, l’Ue ha trovato un’intesa storica sullo stop alla vendita di auto inquinanti. Dal 2035, non potranno più essere venduti i veicoli con motore a combustione interna, tra cui rientrano i motori a scoppio a benzina e diesel che si trovano sulla grandissima maggioranza delle auto italiane. Il nostro Paese, infatti, ha un tasso di penetrazione dell’elettrico nel parco veicoli di appena lo 0,7%. La misura dell’Ue è arrivata dopo un percorso lungo e accidentato, con alcuni Stati, tra cui l’Italia, che premevano per posticipare la data limite al 2040. Alla fine la scadenza è rimasta al 2035, ma l’Ue ha dovuto cedere sulle emissioni inquinanti dei produttori, che otterranno una deroga al limite se la loro produzioni di veicoli a emissioni zero raggiungerà un certa quota. Si discute poi di concessioni che potranno essere incluse nel nuovo standard Euro 7. I motori con questa certificazione potrebbero non avere livelli di emissioni tanto minori di quelli Euro 6, per la felicità del settore dell’automotive, che preme ridurre i costi prima della rivoluzione che dovrà avvenire da qui a 13 anni, ma con buona pace della qualità dell’aria. La decisione dell’Ue rappresenta un enorme passo in avanti, ma che non abbraccia del tutto il problema che deve essere risolto. È questo, in sintesi il pensiero di Matteo Dondè, architetto e urbanista esperto di mobilità sostenibile. Discepolo dell’urbanista svizzera Lydia Bonanomi, che ha introdotto al grande pubblico il concetto di “zona 30” (…e Gente contenta, titola un suo libro). All’interno delle zone 30 le auto non possono andare più veloce di 30 chilometri orari, garantendo una migliore convivenza tra tutti gli utenti della strada. Un intervento urbanistico applicato in molte città, da Bruxelles a Parigi.

Come vede la mossa dell’Ue?

«Positivamente, ma sappiamo che l’elettrico ha comunque tanti problemi di inquinamento, a partire dalle batterie, che vanno prodotte e smaltite. Senza considerare che le auto elettriche non risolvono comunque il problema del particolato nell’aria, che nelle città deriva in gran parte dall’usura delle pastiglie dei freni e degli pneumatici [cosa che dovrebbero essere inclusa nei parametri dello standard Euro 7, ndr]. Le auto elettriche non sono la soluzione per la mobilità sostenibile».

Quindi qual è la soluzione?

«Bisogna ridurre la pressione veicolare. Le nostre città – come Milano – sono imballate di auto parcheggiate. In Italia pochissimo è stato fatto su questo fronte. Se guardiamo di nuovo a Milano, che in questo senso è la città più virtuosa del Paese, vediamo che ha 54 auto ogni 100 abitanti, mentre nelle altre grandi città europee siamo a meno della metà. Milano ha un prezzo della sosta in pieno centro che è bassissimo, e chiaramente incentiva l’uso dell’auto. L’amministrazione si è resa conto che dobbiamo restituire lo spazio alle persone, e lo sta facendo, ma le manca un po’ di audacia. Il sindaco, ad esempio, ha ribadito che per la zona 30 è ancora troppo presto».

Perché è importante ridurre il numero delle auto in strada?

«Come abbiamo visto, aiuterebbe innanzitutto ad affrontare la questione ambientale, ma ci sono molti altri vantaggi. Meno auto significa avere un uso dello spazio più democratico. Una macchina resta parcheggiata per il 92% della propria esistenza, occupando 10 metri quadrati di suolo pubblico – spesso senza dover pagare o a prezzi irrisori – che vengono quindi utilizzati solo da chi la macchina ce l’ha e se la può permettere, che sia un Suv o una Smart. Per questo molte città europee hanno eliminato il parcheggio su strada facendo spazio per le persone. Una scelta democratica di cui i cittadini sono felici».

Come siamo arrivati a questa “occupazione del suolo pubblico”?

«Negli anni ’20, negli Stati Uniti le auto in strada avevano iniziato a fare troppi morti. Per questo le case automobilistiche si sono inventate il reato del jaywalking [così si chiama in inglese il reato contestato a chi attraversa la strada al di fuori delle strisce, ndr], facendo pressioni affinché venisse introdotto nella legislazione da parte delle amministrazioni. Da lì è partito un processo che ha reso le città estremamente autocentriche. Nel dopoguerra, in Europa c’era moltissimo da ricostruire e ci si rifatti al modello americano, importandone anche i difetti progettuali».

Se c’è traffico non basta allargare le strade?

«Purtroppo il paradigma si è formato e ancora ce lo portiamo dietro. Basti considerare che in Italia molte amministrazioni pensano ancora che per fluidificare il traffico sia necessario aumentare la capacità stradale, allargando la carreggiata e aggiungendo corsie. La verità, e i dati lo dimostrano, è che così facendo non si fa altro che invitare le persone a usare l’auto ancora di più, e per un fenomeno chiamato “domanda indotta” il problema non si risolve, ma, anzi, peggiora».

Sta dicendo che la colpa è delle amministrazioni?

«Le amministrazioni hanno la colpa di non aver mai favorito la nascita di un dibattito pubblico che si basasse sui dati. La cosa si nota quando attraversiamo la strada ringraziando l’automobilista che ci fa passare: per il cittadino italiano, la strada è dell’automobile. Quando le amministrazioni introducono le Zone 30 non spiegano quali sono i vantaggi. Non spiegano che il traffico non subisce rallentamenti perché tanto la velocità media delle auto in città si aggira intorno ai 20 chilometri orari. Lo si vede anche quando certe strade vengono pedonalizzate. È il caso di Corso Garibaldi a Milano, ad esempio. Prima dell’intervento tutti i commercianti erano contrari, convinti che togliere l’accesso alle auto avrebbe danneggiato le loro attività. Nessuno aveva mostrato loro i dati che dimostrano che le attività commerciali ne beneficiano. Così è stato, infatti, e ora scoppierebbe la rivolta se si chiedesse loro di tornare indietro. Azioni efficaci hanno bisogno del dibattito pubblico. La competenza tecnica già c’è, ma si scontra con l’opposizione di tanti cittadini e delle amministrazioni. Lo dimostra il caso della Spagna – che prendo ad esempio da quando la gente mi dice che i Paesi del Nord Europa sono troppo diversi da noi. Loro, dieci anni fa erano messi peggio di noi, ma grazie a un sano dibattito pubblico hanno fatto passi da giganti».

Qual è l’effetto di non avere un dibattito pubblico?

«Togliendo le auto dalle strade possiamo dare spazio alle persone che a quel punto sono libere di muoversi come vogliono: a piedi, in bicicletta, col monopattino elettrico, tutti modi veramente sostenibili. Il problema è che, affrontando il tema come facciamo noi, passa il concetto che questo sia un conflitto tra utenti della strada. Ma in realtà non lo è. Perché disincentivando l’uso dell’auto per gli spostamenti brevi – in città il 60% è inferiore ai 5km, il 40% addirittura inferiore ai 2 – si libera spazio per chi veramente non può farne a meno».

Come si posiziona l’industria dell’auto in tutto ciò? Oggi il ministro Puchetto Fratin ha ricordato che gli interventi dell’Ue devono essere «praticabili per le imprese del settore»…

«Le pressioni dell’automotive per rallentare questo processo dimostrano semplicemente che quest’industria teme di perdere il posto che ha e quindi sta cercando di sopravvivere vendendo un modello appetibile e non inquinante. Ciò non vuol dire che in Europa si guardi solo a questo settore quando si parla di mobilità sostenibile. Secondo me ci vorrebbe un codice della strada comune a livello di Unione. Ancora non ci siamo, ma ci sono dei passi avanti. Il Parlamento Europeo, ad esempio, ha approvato a stragrande maggioranza un testo per rendere ogni città una Zona 30. La cosa interessante è che a votarlo è stato anche il centrodestra italiano, che, però, quando la sinistra propone di farlo a Bologna, si oppone. L’hanno fatto a Bruxelles, e gli spostamenti totali delle persone sono aumentati, pur con la diminuzione di quelli in auto. Quindi, di fatto, la mobilità è stata favorita, non impedita. Detto questo, è chiaro che queste soluzioni possono essere implementate facilmente nelle città, mentre nelle zone sparse della Pianura Padana – penso al Veneto – è più difficile e lì le auto elettriche potrebbero aiutare di più».

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