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Giorno della Memoria, nel diario di mio nonno il sollievo e i tormenti del rifugio svizzero che sembrava una prigione

27 Gennaio 2023 - 14:52 Franco Bechis
La fuga, il buio pesto, la vita nei campi di smistamento dei rifugiati in Svizzera, e un panciotto pieno di monete che aiutò non poco. Nelle pagine scritte da Giuseppe, detto Aldo, Colombo una storia che io, a differenza di altri ebrei, ho la fortuna di poter raccontare

Era il 19 ottobre 1943. «Il terrore dilaga. Si viene a conoscenza di arresti di diversi ebrei. Una lettera di Marino ci consiglia di trasferire papà all’ospedale di Valsolda, accettiamo l’idea ed alcuni giorni dopo partono per questa destinazione. Partiamo noi pure per Valsolda. Arrivati a Como Marino ci informa che le persecuzioni si intensificano perciò ha convinto papà, mamma, Ezio e Sergio di passare in Svizzera, passaggio effettuato fin dal 23 ottobre…». È il diario di mio nonno, Giuseppe detto Aldo Colombo, che non avevo mai letto finché non l’ho trovato nei cassetti di mia mamma, Rosanna, quando è mancata di Covid nel 2021. La storia me l’aveva raccontata mille volte fin da quando ero bambino. Quella di suo nonno Aronne, antica famiglia ebrea, che capì subito i tempi e provò a porvi riparo facendo battezzare tutti, figli e nipoti. Ma non bastò. Avevano una ditta di stoffe a Torino, la Arnaud & Colombo. Gliela portarono via, ma anche lì capì i tempi prima che si scatenasse la furia delle leggi razziali. Vendettero tutto quel che era possibile e trasformarono in sterline d’oro, che potevano essere utili all’occasione.

Una pagina del diario di Giuseppe Colombo, detto Aldo (1943)

La traversata

Via da Torino, provarono a riparare verso la Val Sangone, a Coazze, dove avevano amici pronti ad accoglierli. Ma arrivarono anche lì i tedeschi (Coazze sarebbe poi stata il 16 maggio 1944 il teatro di un eccidio di 24 partigiani fucilati dai nazifascisti). E allora via, verso il lago di Como dove erano già riparati i miei bisnonni e prozii. «Vado con i bimbi», scrive nonno Aldo il 29 ottobre 1943, «a Valsolda in casa di Marino in attesa di una nuova occasione». I bimbi erano mia mamma Rosanna – 5 anni all’epoca, e mio zio Giampiero, 3 anni di più. Nonna Lalla Vitale non c’era più: era morta giovanissima con mia mamma che non aveva ancora un anno prima della guerra a Torino: girava in bicicletta, ma era stremata. Si agganciò per farsi trainare a un camion che frenò bruscamente in corso Moncalieri, e non ci fu più nulla da fare. L’amico di nonno, Marino, ha buone conoscenze e si fa in quattro per aiutare lui e i bimbi. Trova l’occasione il 31 ottobre del 1943: «A mezzanotte un boscaiolo», scrive il nonno, «e un finanziere ci vengono a rilevare sulle sponde del lago (…) Ho somministrato ai bimbi una speciale medicina per assopirli durante il tragitto. Ci portiamo subito al centro lago nel buio più pesto. La traversata effettuata su una fragile imbarcazione era alquanto pericolosa perché il benché minimo rumore poteva essere sentito dai tedeschi stabiliti sulle sponde in prossimità della frontiera e in questo malaugurato caso saremmo stati subito arrestati dai fari piazzati sulle sponde, facile bersaglio delle loro armi pronte a sparare…». Due ore di navigazione silenziosa, poi l’arrivo a Castagnola, frazione di Lugano, dove nonno e bimbi arrivano alle 5 del mattino con le loro masserizie. Da lì si mettono in marcia per Locarno, dove sono già riparati il bisnonno Aronne e mio prozio Italo in un albergo-campo di raccolta degli ebrei sfollati dall’Italia.

L’accoglienza degli svizzeri

Il giorno dopo tutti alla stazione di polizia, dove apprendono che alcuni ebrei erano stati respinti e rimpatriati forzosamente in Italia. Un brivido prima dell’auto-denuncia. Ma la famiglia viene salvata e accettata dagli svizzeri grazie alla presenza di bambini piccoli. L’8 novembre 1943 trasferiscono tutti a Bellinzona, dove c’è un campo di smistamento dei rifugiati. Visite mediche, e poi ritorno al campo originario di Locarno. A dicembre tutti trasferiti a Les Avants, vicino Montreux. Qui c’è un campo raccolta con 400 rifugiati in un casermone: «Ci dirigono in refettorio a suon di fischietto secondo l’abitudine militare e carceraria del luogo e ci rifocillano con una tazza di acqua sporca tiepida». Il paesaggio intorno è bellissimo, ma il campo è organizzato come fosse di prigionia. Nessuno può uscire se non accompagnato da gendarmi svizzeri. Mattino sveglia alle 6 e 30, alle 7 in refettorio dove c’è un po’ di pane da mangiare e acqua. Alle 8.30 si fanno gli squadroni dei rifugiati e si distribuiscono i compiti: chi pulisce le camere, chi in cucina, chi a pulire i bagni, altri a raccogliere legna per riscaldarsi nel boschetto che circonda il casermone. Si passa così il primo Natale, che diventa tale anche per i bimbi quando il console italiano di Losanna arriva in visita distribuendo dolcetti e qualche regalo che porta Wally Toscanini, la secondogenita del grande Arturo, che accompagna il console. Ma la felicità dura poco.

Una pagina del diario di Giuseppe Colombo, detto Aldo (1943)

Il rifugio-prigione

Il 30 novembre arriva un ordine del governo svizzero che impone di trasferire tutti i bambini al di sopra dei sei anni in un altro campo rifugiati, vicino a Ginevra. A nonno Aldo portano via il figlio Giampiero, insieme ai cuginetti. Mamma i sei anni li avrebbe compiuti il 23 gennaio 1944 e resta ancora lì per poco. Il diario di nonno racconta per pagine e pagine i tormenti di quel rifugio che sembrò tanto una prigionia, le notizie che arrivavano dall’Italia, un cugino – Arrigo Levi – pizzicato dai tedeschi mentre con la moglie tentava anche lui di raggiungere la Svizzera, i pochi beni (le stoffe) nascosti in un magazzino a Coazze che era stato scoperto dai tedeschi che avevano preso tutto. E le incertezze sul destino degli altri parenti: «Sono sempre in pensiero per mia suocera e Duccia e Walter dei quali non ho alcuna notizia». La suocera era la mia bisnonna Claudia, da bimbo adoravo più di tutti. Donna segaligna, ironica e divertente, ma sempre decisa. Vedova allevò sola i suoi figli. Lalla in sposa a mio nonno, e la tragedia che la portò via giovanissima. Fernanda detta Duccia in sposa a un altro ebreo che lavorava nelle stoffe, e anche lui scomparse giovanissimo, lasciandola vedova con una figlia – Paola – poco più grande di mia mamma. Claudia, come accade nelle famiglie matriarcali (la mia lo è sempre stata), dopo la guerra decise che mio nonno, vedovo con due figli e sua figlia (nonché cognata del nonno), e Duccia, vedova con una figlia dovevano unirsi in matrimonio per allevarli insieme, e così fu.

Anche mia mamma fu separata in Svizzera da nonno Aldo, e si ritrovarono tutti solo alla fine della guerra, ma sani e salvi. In campo di concentramento in Germania finirono due cugini di nonno e qualche altro parente, e non sarebbero mai tornati. Ma loro tutti vivi. In Svizzera non è stata facilissima, ma aiutarono quelle sterline d’oro che nonno aveva cucito in un panciotto una a una prima della traversata notturna con il barcaiolo. Nonno ne conservò alcune che ancora aveva dopo la guerra, e le regalò a me e alle mie sorelle ogni compleanno centellinandole fino a quando non terminarono tutte. È il mio giorno della memoria, che a differenza di tanti altri ebrei ho la fortuna di raccontare perché tutta la famiglia ne uscì ferita ma indenne. E grazie alla Svizzera sono potuto venire al mondo anche io…

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