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Con la proposta Rampelli il primo a essere multato sarebbe il governo Meloni con il suo ministero del made in Italy

La proposta del vicepresidente della Camera prende di mira le parole straniere non indispensabili, ma traducibili nella nostra lingua

La proposta di legge con cui Fabio Rampelli vorrebbe sanzionare l’utilizzo delle parole inglesi nella pubblica amministrazione ha aspetti grotteschi; se fosse approvata una norma del genere, il primo ad essere multato sarebbe il Governo, che ha intitolato un Ministero al Made in Italy. Tale proposta sarebbe anche totalmente inapplicabile, essendo ormai molte parole della lingua inglese entrate nel linguaggio comune; soltanto un pazzo direbbe “calcolatore elettronico” al posto di “computer”, “topo” al posto di “mouse” o “dispensatore” al posto di “dispenser”. Così come sarebbe quasi impossibile tradurre in italiano “file” per descrivere un documento digitale. Fatta questa importante premessa, dobbiamo riconoscere che la questione dell’uso eccessivo della lingua inglese non si può risolvere in modo sbrigativo, limitandosi a respingere proposte sconclusionate come quella appena descritta. Nella vita economica, nelle aziende e nella pubblica amministrazione l’uso eccessivo e impreciso dell’inglese sta generando una nuova lingua che non segue regole particolari ma si caratterizza soprattutto per la storpiatura sporca e imprecisa delle parole.

Tanti anni fa, durante una riunione di lavoro, il Prof. Tiziano Treu, il Presidente uscente del CNEL, interruppe il suo interlocutore, impegnato a utilizzare una serie infinita di parole inglesi, per dirgli «facciamo una cosa, decida se parlare in italiano oppure in inglese, e lo faccia bene, perché al momento sta sbagliando entrambe le lingue». Un episodio che descrive bene qual è il problema: l’utilizzo grossolano delle parole di origine inglese. Non di quelle parole che, come nell’esempio fatto prima, ormai designano in maniera chiara alcuni oggetti (come altro possiamo chiamare uno scanner o un file?) e non possono essere sostituite con parole italiane; il problema riguarda, invece, l’utilizzo gratuito e inappropriato di parole inglesi, la loro trasformazione sbrigativa e pasticciona in neologismi improbabili. Il re indiscusso di questo triste andazzo è l’orribile “forwardare”: il comando presente in tutti i sistemi di posta elettronica per l’inoltro dell’email (“forward”), contro ogni regola di grammatica e di buon gusto, è stato trasformato in un (inesistente) verbo italiano. Ma gli esempi sono tantissimi. La pigrizia linguistica nelle risorse umane ha fatto avanzare prepotentemente l’aggettivo “skillato”, considerato più facile da usare rispetto a “formato” o “competente”.

Nel campo economico il problema è ancora più evidente; i contratti sono “marcappati” (invece che corretti in modalità revisione), le proposte commerciali sono “cappate” (invece che soggette a un limite), i servizi sono “chargati” (e qui è difficile anche capire a cosa si fa riferimento in italiano). Nel linguaggio aziendale, poi, sembra impossible fare a meno di “briffare”, quando si vuole spiegare che qualcuno è stato informato su un certo argomento. Le riunioni sono quasi sempre “meeting”, vengono “schedulate” invece che messe in agenda, e per entrare in ufficio si deve “beggiare” invece che timbrare; se si traffica con il computer, è facile trovarsi a “downloadare” o “uplodare” un documento. In aggiunta a questo andazzo (qualcuno direbbe “on top”) ci si mettono anche i lavoratori e le lavoratrici di domani: chi ha figli sa bene che di fronte alla PlayStation o all’Xbox abbondano termini come “skippare”, “killare”, “camperare” e cosi via. Insomma, anche dopo aver messo in soffitta il buffo disegno di legge di Rampelli, tutti – a partire dalle aziende e dalle pubbliche amministrazioni – dovrebbero porsi il problema di disincentivare l’utilizzo di questi inglesismi. Ne trarrebbero beneficio tutti: la lingua italiana, quella inglese, e i gli stessi lavoratori e cittadini che sono veicoli inconsapevoli di queste brutture. Perché, come diceva Nanni Moretti mentre schiaffeggiava una giornalista troppo verbosa in Palombella Rossa «chi parla male, pensa male e vive male».

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