Addio a Giuseppe Pennisi, economista e musicologo

Iniziò alla Banca mondiale, ha collaborato con decine di testate

Si è spento sabato 8 aprile nella sua casa romana circondato dall’affetto della famiglia Giuseppe Pennisi, uno dei più acuti economisti liberali che aveva da poco compiuto 81 anni e che per hobby (ma era in realtà una seconda professione) era anche musicologo. Se l’è portato via un tumore al polmone che è stata dolorosa compagnia degli ultimi anni, e non gli ha impedito di scrivere per le molte testate a cui collaborava quasi tutti i giorni fino all’ultima settimana di marzo. Pennisi si è fatto le ossa alla Banca mondiale dove ha lavorato a lungo negli Stati Uniti durante gli anni Ottanta. Rientrato in Italia è stato assunto come dirigente all’allora ministero del Bilancio e poi a quello del Lavoro con una passione che poi è stata premiata con l’onorificenza di Grande Ufficiale all’Ordine al merito della Repubblica. Ha insegnato alla John Hopkins University e dal 1995 al 2009, quando è andato in pensione per limiti di età, ha coordinato il programma delle materie economiche della Scuola Nazionale di amministrazione. Per cinque anni è stato consulente della Cassa depositi e prestiti e per otto anni consigliere del Cnel. La sua vera passione però era la scrittura, dove eccelleva per chiarezza e sintesi, sapendo cogliere come pochi commentatori sanno fare sempre il cuore delle questioni. Ha collaborato con tantissime testate, e nell’elenco si rischierebbe di lasciarne qualcuna per strada. La sua firma comunque è apparsa sul Sole 24 ore per tre lustri, per altrettanti su Italia Oggi e talvolta su Milano Finanza, come su Il Tempo, il Messaggero, Avvenire, Il Corriere della Sera, le testate del gruppo Finegil e in questi ultimi anni anche su testate on line come Il Sussidiario e Formiche. Con alcuni di questi giornali (ad esempio Italia Oggi e Avvenire) la collaborazione è stata doppia: firma di punta dell’economia, ma anche recensore di concerti e spettacoli di opera lirica, per cui fin quando ha potuto girava da spettatore l’Italia e l’Europa. L’ho conosciuto alla fine degli anni Novanta al gruppo Class e con entusiasmo accettò la collaborazione da editorialista economico a Il Tempo quando lo diressi fra il 2002 e il 2006. Continuò la collaborazione anche quando divenni direttore di Italia Oggi fra il 2006 e il 2009. Raramente una firma di punta aveva la sua disponibilità e rapidità di scrittura. Anche se lo si chiamava all’ora di cena dicendogli: «Giuseppe, ce la fai in mezz’ora 60 righe?», lui non si tirava indietro. E mezz’ora dopo arrivava la sua telefonata per sincerarsi della ricezione dell’articolo: «Ti ho mandato un mail», perché lui la posta elettronica in inglese la diceva al maschile e non l’ho mai voluto contraddire. Poche settimane fa ci eravamo sentiti, e mi aveva raccontato il dispiacere per non riuscire più a muoversi in giro per i festival musicali, ma con tenerezza mi aveva raccontato la vicinanza della famiglia, l’adorata moglie Patrice e i due figli Aline e Raphael con i nipotini. C’eravamo ripromessi di vederci, e purtroppo non c’è stata occasione. «Da domani ti manderò in copia quello che scrivo», promise. E mantenne: ogni giorno leggevo la sua produzione che non aveva mai sbavature. A fine marzo nell’ultimo messaggio di posta elettronica non c’era un articolo. Solo poche righe che oggi fanno venire un po’ i brividi: «Carissimi, da alcuni giorni le mie condizioni di salute sono molto peggiorate. Passo praticamente le giornate a letto. Non scrivo quasi più. Quando verrà l’uomo del SETTIMO SIGILLO non chiederò di fare una partita a scacchi. Grazie per l’amicizia e l’affetto che mi avete sempre mostrato. Giuseppe». Sabato 8 aprile dal suo indirizzo mail ne è arrivata una scritta dai due figli dal titolo secco «Addio, Giuseppe».


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