La malattia di Wilson è una rarissima sindrome su base genetica che comporta l’accumulo tossico di rame negli organi con effetti a livello epatico e neurologico. Nonostante sia di base ereditaria, di regola non viene trasmessa ai figli a meno che i genitori non siano entrambi malati o portatori sani, e che tra loro non ci sia consanguineità. Valeria Noce, 38 anni, porta con sé questa malattia. Andrea, il padre di suo figlio, no, ma dalle successive analisi si è scoperto portatore sano. Così loro figlio, il piccolo Mattia, è nato con la sindrome. La loro storia è raccontata dal Corriere della Sera, che spiega come a Valeria, e alle mamme di bimbi con malattie genetiche rare, è dedicata la campagna Telethon «Io per lei». Per la quale, oggi e domani, 5mila volontari si riuniranno in oltre 2mila punti di raccolta in Italia per distribuire biscotti a forma di cuore. La donazione minima è di 15 euro, e il ricavato aiuterà la fondazione a portare avanti la ricerca scientifica di cui da trent’anni è promotrice. Per la malattia di Wilson, sono già sette i progetti di ricerca messi in campo dai ricercatori dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina di Pozzuoli.
La diagnosi e la terapia
La vita di Valeria è cambiata quando aveva 9 anni, e contrasse la mononucleosi: quella fu l’occasione per i medici di scoprire valori delle transaminasi eccezionalmente alti. La malattia di Wilson, infatti, è asintomatica. Fino a che non si manifesta un danno agli organi. Ma a quel punto, la situazione è già irrecuperabile. «Il mio è stato il primo caso diagnosticato al Policlinico Umberto I, a Roma, subito curato con i chelanti del rame, farmaci che intrappolano e veicolano questo metallo fondamentale per vivere ma, se in eccesso, velenoso. Poi però ho avuto anche l’epatite fulminante, uno dei decorsi più rari della sindrome di Wilson – ricorda Valeria -. Ho fatto il trapianto di fegato il 28 luglio 2006, dopo un anno e due mesi di attesa, ma non è una soluzione».
I farmaci
La diagnosi di Mattia, invece, è stata precoce. E questo gli ha permesso di assumere subito i farmaci che, pur non risolutivi, gli hanno consentito di non sviluppare alcun sintomo. Adesso il bambino ha 4 anni e rispetta già una routine ferrea: «A digiuno di tre ore: due ore prima della terapia e poi, una volta assunta, non deve mangiare per un’ora – spiega ancora Valeria -. Mattia la fa alle cinque del mattino e alle sei del pomeriggio. Sa tutto. Cos’ha, perché deve fare controlli costanti ed evitare cioccolata, ricca di rame. “La mangio solo se me lo dice mamma”, dice. E se non ricorda gli orari per le medicine aspetta il timer che ho impostato sul telefonino e che gli dà il via libera”. È molto consapevole e allegro. Frequenta l’asilo e adora i balli latino americani». La dipendenza dai farmaci potrebbe finire con l’arrivo di una terapia definitiva, che ripristini il gene mutato e porti così alla soluzione della patologia.
Foto copertina: Il Corriere della Sera
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