Michela Murgia, la malattia e la felicità: «Arrivai in ospedale in fin di vita, il tumore fu una buona notizia. Questo è il mio tempo migliore»

La scrittrice si racconta a tutto tondo in un’intervista a Vanity Fair: «Le famiglie vanno declinate al plurale, ce lo insegnano i nuraghes della Sardegna»

È una Michela Murgia senza filtri, quella che racconta sé stessa, la sua malattia, l’universo plurale delle relazioni umane e la sua famiglia queer in una lunga intervista con Simone Marchetti su Vanity Fair. A un mese e mezzo dal disvelamento pubblico del male di cui soffre, un tumore al quarto stadio che promette di lasciarle pochi mesi di vita, Murgia torna nella conversazione col settimanale su tutti i temi che più le stanno a cuore, e racconta come è cominciata la presa di coscienza della malattia, ribaltando gli schemi. «Io sono arrivata in ospedale in fin di vita. In ambulanza, in pronto soccorso e poi subito in sala operatoria. Era il secondo lockdown, Capodanno del 2021. Ero in condizioni di semi incoscienza, convinta di morire e con i medici convinti che sarei morta. In realtà, sono sopravvissuta alla terapia intensiva per una reazione straordinaria del corpo alle prime cure di rianimazione e a due operazioni di svuotamento d’acqua dei polmoni. Quando mi sono ripresa e sono uscita, quando è arrivata la diagnosi del tumore era una buona notizia, perché avevo ancora tempo, perché non sarei morta in terapia intensiva. Non ho provato rifiuto: quella notizia non voleva dire cancro, voleva dire tempo».


La scrittrice conferma, guardando a ritroso, la sensazione di aver vissuto «dieci vite», ricorda l’infanzia dura soprattuto a causa del rapporto con il padre, le fughe e le tante prove della vita, i lavori, le relazioni e gli affetti. Un percorso denso e lungo che l’ha portata, afferma oggi senza dubbio, ad essere felice. «Sono molto fortunata perché ne amo molte (persone, ndr) e sono riamata in modi molto diversi, quindi sperimento una gradazione di amore molto più ampia di quella che si può sperimentare dentro una coppia». A mancare, d’altra parte, a volte più che la felicità sono il tempo e il modo di accorgersi che già c’è. «Io avrei potuto insegnare tutta la vita. Sarei stata comunque la persona che sono. Una cosa resta importante: riconoscere la felicità è una forma di intelligenza. Perché molte volte la felicità ti passa accanto e tu non capisci che quello è un momento felice. Perché sei troppo presa o stanca. Ho avuto fortuna perché il mio tipo di lavoro mi permette un’introspezione e delle pause in cui posso guardare me stessa dall’esterno e in cui capisco che il tempo che sto vivendo è probabilmente il tempo migliore della mia vita. Io oggi le dico: questo è il tempo migliore della mia vita».


Una parte importante dell’attuale pienezza della sua vita, Murgia l’attribuisce senza dubbio all’universo vivo e multiforme costruito con la sua famiglia queer, un modello atipico su cui la scrittrice torna ancora una volta volentieri – anche per sfatare alcuni falsi miti al riguardo. «Mi piace definirla ibrida, la mia famiglia. Non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime: le persone hanno esigenze che gestiscono inventandosi rapporti che possano soddisfarle. Non esiste un nome per questa creatività degli affetti: il problema è togliere gli aggettivi e declinare le famiglie finalmente al plurale». Dalla sua terra d’origine, d’altra parte, Michela Murgia trae una fonte primaria affascinante d’ispirazione per questo modello aperto e plurale. «In Sardegna ci sono 7.000 nuraghes, torri di pietre diffuse come una specie di connessione neuronica. Sono costruite in modo che da una tu ne possa vedere almeno altre due, così che se uno non ti vede, almeno ti vede l’altro. Quando arrivavano le navi verso la costa, il nuraghe più vicino accendeva il fuoco in alto e dall’alto gli altri due potevano vedere nella notte il pericolo. La storia dei nuraghes restituisce l’idea che due non basta. Io l’ho sperimentato molte volte nella vita. Il modello coppia regge finché non succede un vero casino: quando uno dei due si ammala, o va in depressione, o perde il posto, o ha una crisi l’altra persona deve reggere tutto il peso di questo squilibrio. A volte può farlo, altre no. E se non c’è nessuno vicino, non esiste la possibilità di trasferire il peso su più persone». Quello trovato da Murgia e dai suoi sodali, così come da altri gruppi umani ieri e oggi, è una soluzione possibile a questo problema, spiega la scrittrice con naturalezza. «La queer family è un modo di gestire meglio il peso di queste cose. Non dico che funzioni sempre. I conflitti e i casini succedono».

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