Micciché e lo chef amico arrestato per la cocaina: «L’ho usata in passato, ma non sniffo più. I giorni al telefono? Avverto se non vado al ristorante»

L’ex senatore di Forza Italia contrattacca che quelle intercettazioni non potevano essere fatte all’epoca in cui era parlamentare. Il suo nome diffuso sui giornali «per sputtanarmi»

«Non ci provo nemmeno a smentire» dice Gianfranco Miccichè, il presidente dell’Assemblea regionale siciliana non indagato ma finito nelle carte dell’inchiesta che ha portato all’arresto dello chef Mario Di Ferro. Nelle oltre 300 pagine dell’indagine, si dice che l’ex senatore di Forza Italia si rvilgesse allo chef con tanto di auto blu e parole in codice per rifornirsi di cocaina. Al Corriere della Sera, Micciché ammette di aver fatto uso della droga, come aveva già detto in passato: «Io, da sempre onesto, non ho mai fatto del male a nessuno. Solo un errore, commesso contro me stesso. Sarei in imbarazzo se avessi rubato. Invece sono a posto con la coscienza. Lo dissi vent’anni fa in diretta durante una trasmissione di Giuliano Ferrara. Solo in studio con lui. Ammisi. Tornai a casa, guardato storto da mio padre: “Me lo potevi dire prima”». Oggi però Micciché dice di non volersi sottoporre a nessun test: «Non sniffo più, ma il test no. Non devo dimostrare nulla a nessuno».


A proposito delle intercettazioni in cui si parlava di giorni che, secondo gli inquirenti, indicavano il numero di dosi ordinate, il dirigente di Forza Italia insiste sulla sua estraneità a proposito di «intercettazioni malamente interpretate. Sono più di cinque, parlo di giorni. Dal 20 al 26 novembre 2022». Micciché ricorda come tutti sapessero della sua amicizia di Di Ferro e del fatto che frequentasse il suo ristorante, dove mangiava ogni giorno: «Forse non tutti sanno che c’è sempre un tavolo per me. E quando lascia Palermo avverto. Per evitare che gli resti un tavolo vuoto. Accadde quel novembre. Devo aver detto “cinque giorni”. Ma riferiti a una partenza per Milano, a un soggiorno a Gardone Riviera, Villa Paradiso, camera 142. Ecco la fattura dell’albergo, per fortuna conservata, trovata dalla mia segretaria. E sulle carte scrivono che non partivo mai».


Micciché si interroga se quelle intercettazioni si potessero proprio fare, visto che all’epoca era senatore: «È una cosa da Paese civile? Perché esce il mio nome? Io non sono indagato e non potevo essere intercettato. Se poi tutto serve a sputtanare». L’ammissione dei suoi trascorsi con la cocaina e la frequentazione del locale però rischia di sembrare una conferma del traffico, gli fa notare Felice Cavallaro che lo intervista: «La mia ammissione è solo una prova di onestà. Tanti non lo dicono. Io sì. Parlando di un peccato che, semmai, faceva male solo a me. Forse affondato in un passato che pesa».

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