Flavio Briatore: «Mio figlio Nathan farà il cameriere. Anche io ho fatto lavori umili»

L’imprenditore: sul figlio del falegname non sono stato compreso

L’imprenditore Flavio Briatore di recente ha sostenuto che «i figli dei falegnami devono fare i falegnami, non l’università». E oggi, in un’intervista a Libero nella quale parla anche della sua amica Daniela Santanchè attesa oggi in Senato, spiega cosa voleva dire. «Il mio ragionamento non è stato compreso», esordisce nel colloquio con Hoara Borselli. «Non metto in discussione lo studio. Quando si finisce quel percorso di studi, se un giovane ha delle aspirazioni tipo diventare medico, ingegnere o avvocato fa benissimo a proseguire con l’università. Se invece non ha alcuna ambizione particolare e frequenta l’università solo per compiacere le aspettative dei genitori, questo è sbagliato e dico che è meglio che vada a lavorare».


L’esempio del falegname

Poi spiega l’esempio del falegname: «Io dico che se il figlio vede che l’attività del padre, ad esempio la falegnameria, va bene, è incentivato da grande a portarla avanti e non andare all’università per trovarsi, come i numeri ci dicono, su una piattaforma di disoccupati. Se lo Stato aiuta le imprese, aiuta i giovani figli a portarle avanti. Gli istituti tecnici, una volta considerati luogo di svogliati, sono invece una enorme risorsa che abbiamo e su cui lo Stato deve investire perché da lì uscirà la manodopera qualificata che terrà in piedi il nostro tessuto socio economico». Mentre suo figlio Nathan «ha finito quest’anno la terza media. Inizierà il liceo che farà in collegio dove ci sarà anche una parte di food and beverage che potrà fornirgli le competenze per continuare il mio lavoro. Sia chiaro, partirà da zero come tutti, facendo il cameriere. È fondamentale se vuole un giorno diventare manager, partire dal basso come ho fatto io nella mia vita».


I lavoretti del piccolo Briatore

L’imprenditore parla poi dei suoi studi e dei suoi lavori da giovane: «Io ho fatto geometra. Ragioneria era troppo complicata perché non ho mai avuto grande predilezione per i calcoli. Una volta presa la maturità mi sono subito voluto inserire nel mondo del lavoro facendo anche cose che non mi piacevano, ma era importante iniziare. Abitando in un piccolo paesino di montagna ho fatto il maestro di sci, poi il cameriere, vendevo e affittavo case, ho venduto assicurazioni. Prima c’era fame di lavoro, ambizione. Cosa che oggi non vedo in troppi giovani. Non sono nato ricco. La mia ricchezza me la sono costruita lavorando». E proprio per questo, sostiene, adesso è penalizzato: «Perché in questo Paese c’è una enorme invidia sociale verso chi ce l’ha fatta. È un retaggio culturale radicato. La ricchezza non viene vista come uno strumento che può generare lavoro ma un qualcosa di sporco da demonizzare e contrastare».

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