A pesare alcune parole usate dai cristiani nel comunicato del 7 ottobre. Come, per esempio, la solidarietà ai «popoli della regione»
«Deludente e frustrante» con queste due parole l’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede definisce la dichiarazione dei Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme, diffusa il 7 ottobre, a commento dell’attacco di Hamas a Israele. «Dalla sua lettura non si riesce a capire cosa sia successo, chi fossero gli aggressori e chi le vittime», spiegano gli israeliani in un comunicato. «Abbiamo menzionato – aggiungono – l’immoralità dell’uso dell’ambiguità linguistica in tali circostanze. Molti non hanno avuto difficoltà a capirlo e hanno condannato l’orrendo crimine, nominando i suoi autori e riconoscendo il diritto fondamentale di Israele a difendersi da queste atrocità. È particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede». «È estremamente deludente e frustrante leggere il testo pubblicato dai Patriarchi e dai Capi delle Chiese di Gerusalemme. Tale comunicato è affetto da immorale ambiguità», aggiungono. «Non è fuori contesto ricordare che oggi avrà inizio presso l’Università Gregoriana un convegno di 3 giorni sui documenti del pontificato di Papa Pio XII e sul loro significato per le relazioni ebraico-cristiane. A quanto pare – conclude la nota – qualche decennio dopo, c’è chi non ha ancora imparato la lezione del recente passato oscuro».
La solidarietà ai «popoli di questa regione»
Ma cosa avevano scritto i Patriarchi di Gerusalemme? «La Terra Santa, luogo sacro per innumerevoli milioni di persone in tutto il mondo, è attualmente immersa nella violenza e nella sofferenza a causa del prolungato conflitto e della deplorevole mancanza di giustizia e rispetto dei diritti umani», riporta la dichiarazione pubblicata il 7 ottobre. Nel comunicato si chiede di rispettare «lo storico e legale “Status Quo” dei sacri santuari. In questi tempi difficili, ci uniamo per alzare la voce, facendo eco al messaggio divino di pace e amore per tutta l’umanità». «Siamo solidali – spiegano – con i popoli di questa regione, che stanno sopportando le conseguenze devastanti dei continui combattimenti. La nostra fede, che si basa sugli insegnamenti di Gesù Cristo, ci obbliga a sostenere la cessazione di tutte le azioni violente e militari che danneggiano sia i civili palestinesi che quelli israeliani». Infine condannano «inequivocabilmente qualsiasi atto diretto contro i civili, indipendentemente dalla loro nazionalità, etnia o fede. Tali azioni vanno contro i principi fondamentali dell’umanità e gli insegnamenti di Cristo». A pesare all’ambasciata israeliana presso la Santa Sede l’assenza di menzione di Hamas e forse la solidarietà «verso i popoli della regione».
Le ultime tensioni per gli ebrei ortodossi e le parole del patriarca Pizzaballa
In realtà tra Patriarchi e governo di Israele ci sono state recentemente alcune tensioni. L’ultima il caso degli sputi di alcuni ebrei ortodossi ai pellegrini cristiani, in delle immagini diventate virali sui social. «Prendiamo atto che per la prima volta, se non erro, anche il primo ministro israeliano ha stigmatizzato questo fenomeno. Speriamo che ora, oltre alle parole, seguano i fatti», ha dichiarato all’ANSA il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca. «Non è un fenomeno che mi stupisce e, purtroppo – ha sottolineato – non è una novità. La sempre maggiore frequentazione da parte di ebrei ultraortodossi della Via Dolorosa renderà inevitabilmente questi fenomeni sempre più frequenti». Pochi giorni fa a margine del concistoro Pizzaballa aveva dichiarato: «Hamas governa due milioni di persone, e non parlare con Hamas significa tenere due milioni di persone fuori dal contesto. Noi spingiamo da tempo in questo senso anche se non giustifichiamo affatto la violenza, sia ben chiaro. La violenza è da condannare in modo totale sempre. Così come è da condannare l’ostracismo nei confronti di Israele, è sbagliato. Diciamo solo che bisogna abbattere le barriere pregiudiziali che impediscono il dialogo. Il punto è questo».
Un attacco senza precedenti. Per la complessità della questione, per la portata. Gli attori coinvolti, il numero di morti, feriti e ostaggi. Nella giornata di sabato 7 ottobre Hamas, il gruppo terroristico che controlla dal 2007 la Striscia di Gaza, ha avviato un’offensiva via aria, terra e mare nel sud di Israele – ancora in corso – lanciando migliaia di razzi e attaccando le comunità vicino a Gaza. A testimoniare la forza dello scontro in atto parlano le cifre: in Israele il bilancio delle vittime, comprese quelle del terribile massacro del rave party israeliano alla frontiera, è salito – e continuerà a farlo – a circa 800, oltre 2.500 feriti e un numero imprecisato di ostaggi. Il portavoce delle Brigate al Qassam, ala armata di Hamas ha fatto sapere – alla tv al Manar del partito libanese Hezbollah – di aver ucciso quattro prigionieri israeliani. Numeri, questi, che non si verificavano dalla guerra dello Yom Kippur (1973), quando Israele fu colto di sorpresa, allora come ieri, da un’azione fulminea (in quell’occasione, di Egitto e Siria). Mohammed Deif, la mente del raid e l’uomo più ricercato da Israele, in un messaggio video ha dichiarato che l’operazione, chiamata «Tempesta di Al-Aqsa», è una risposta agli attacchi israeliani contro le donne, le recenti incursioni della polizia israeliana nella Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme e l’assedio continuo a danno di Gaza.
Chi ha scatenato l’offensiva contro Israele e perché adesso?
A scatenare l’offensiva contro Israele è stato il movimento politico militare Hamas, un’organizzazione terroristica per Unione Europea, Stati Uniti, Cina e Canada. Il suo nome significa «Movimento della resistenza islamica» (Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya). Fondata nel 1987 (anno della prima Intifada) dallo sceicco Ahmed Yassin, ucciso da un raid missilistico israeliano mentre usciva da una moschea a Gaza, Hamas controlla dal 2007 la Striscia di Gaza, ovvero la porzione di territorio tra Israele ed Egitto abitata da oltre 2,2 milioni di persone palestinesi e una delle aree con la densità più alta al mondo. In estrema sintesi, il progetto del movimento islamista, sunnita e fondamentalista – e che si ispira ai Fratelli Musulmani – è quello di distruggere Israele e creare uno Stato islamico in Palestina. Hamas ha, inoltre, un braccio armato: le Brigate al-Qassam, responsabili dei molti raid subiti da Israele. La recente incursione dell’ala armata avrebbe ricevuto il sostegno della cosiddetta Jihad islamica, un altro gruppo islamista presente a Gaza. Ma oltre a quella militare, Hamas ha anche un’ala politica: nel 2006 ha vinto le elezioni nei Territori palestinesi e Ismail Haniyeh è diventato il primo ministro dall’Autorità Nazionale Palestinese, fino a quel momento nominato dal partito arrivato secondo alle elezioni, ovvero Al-Fatah. Quest’ultimo, formazione politica che controlla la Cisgiordania guidata dall’anziano Abu Mazen – e che secondo osservatori e media non è coinvolto negli attacchi di sabato – si è fin da subito contrapposto ad Hamas. Nel 2007 scoppia, così, una guerra civile di Gaza, con i membri di Fatah che vengono espulsi dalla Striscia insieme al loro leader. L’attacco senza precedenti di sabato 7 ottobre è avvenuto un giorno dopo il cinquantesimo anniversario dell’attacco a sorpresa di Egitto e Siria nel 1973 che diede inizio a una grande guerra in Medio Oriente. E il significato di quella data, con ogni probabilità, non sarà sfuggito alla leadership di Hamas.
Come ha risposto Israele?
La risposta di Israele su Gaza è in corso. L’esercito israeliano sta riprendendo il possesso dei centri abitati e dei varchi e avviando una ritorsione militare con ingenti attacchi alle città della Striscia. Nell’operazione, ribattezza «Spada di ferro» dagli israeliani, sono stati uccise oltre 500 persone, secondo l’ultimo aggiornamento dei funzionari palestinesi. «L’esercito israeliano sta conducendo attacchi su larga scala su diversi centri strategici appartenenti all’organizzazione terroristica di Hamas», ha detto il portavoce delle forze israeliane. Secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, citata da Al Jazeera, Israele «ha distrutto edifici residenziali, moschee scuole e ospedali». Nel frattempo, il ministro della Difesa del Paese Yoav Gallant ha ordinato «l’assedio completo» della Striscia di Gaza, peggiorando ulteriormente la situazione dei civili presenti, che dal 2007 – dopo la presa di potere di Hamas – devono far fronte alle conseguenze dell’embargo imposto da Egitto e Israele. All’interno del piccolo territorio palestinese non ci sarà dunque «elettricità, né cibo, né benzina». Per il funzionario israeliano, Tel Aviv combatte «contro degli animali umani e per questo – fa sapere – agiremo di conseguenza». Intanto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – leader del governo più a destra della storia del Paese – ha avvertito i cittadini di prepararsi a una «guerra lunga e difficile». Israele sta, inoltre, arruolando un numero record di 300mila riservisti. Lo ha annunciato il portavoce militare Daniel Hagari: «Siamo in un amplissimo processo di reclutamento».
Cosa c’entra la Moschea Al-Aqsa?
Nel suo discorso di circa 10 minuti, il comandante di Hamas Mohammad Deif ha sottolineato come l’operazione sia stata lanciata come rappresaglia per la «profanazione da parte di Israele della moschea di Al-Aqsa». Motivazione, questa, utilizzata anche dal leader politico del gruppo, Ismail Haniyeh, secondo cui i militanti «stanno guidando una campagna eroica volta a difendere la moschea di Al-Aqsa, i luoghi santi e i prigionieri palestinesi». Al-Aqsa è il nome della Moschea che si trova sulla contesa Spianata delle Moschee a Gerusalemme ed è considerata il terzo luogo più sacro dell’Islam. Ma il suo complesso si affaccia sul Muro del Pianto, il più sacro luogo di preghiera per gli ebrei. Secondo l’interpretazione della regola dello status quo accorda ai soli musulmani il permesso di pregarvi, mentre permette ai fedeli delle altre religioni di visitare il luogo. Eppure le recenti restrizioni israeliane all’accesso dei fedeli musulmani con la massiccia presenza delle forze dell’ordine sul sito hanno provocato un crescendo di forti ostilità. Ogni anno, infatti, nel periodo che coincide con il Ramadan e la preparazione alla settimana della Pasqua ebraica si verificano momenti di forte tensione. L’ultimo: il 5 aprile scorso quando le forze di occupazione israeliane (IOF) hanno fatto irruzione nella sala di preghiera di al-Qibly, nel complesso della moschea di al-Aqsa, con armi e lacrimogeni per costringere i fedeli asserragliati dentro ad uscire.
Perché l’intelligence israeliana non è riuscita a prevedere l’attacco?
Come è possibile che il governo israeliano, le loro forze armate, le agenzie di intelligence, siano state colte alla sprovvista? Il primo ministro Netanyahu, con ogni probabilità, dovrà rispondere dell’enorme fallimento. L’impreparazione dell’esecutivo è venuta a galla fin da subito, ovvero con l’evidente ritardo con cui Bibi ha risposto agli attacchi di Hamas: «Siamo in guerra. Il nemico pagherà un prezzo che non ha mai conosciuto», ha detto rivolgendosi agli israeliani. Il raid arriva in un momento particolare per la leadership del Paese, attaccata negli ultimi mesi da milioni di persone, tra cui gli stessi militari, che – scesi nelle piazze del Paese – si sono schierati contro la proposta di riforma della giustizia sostenuta dallo stesso premier. Ma non solo: a fine luglio, oltre mille riservisti dell’aviazione, fra cui centinaia di piloti, hanno inoltrato una lettera ai deputati della Knesset, al capo di stato maggiore generale Herzi ha-Levi e al comandante dell’aviazione militare generale Tomer Bar per informarli che avrebbero sospeso la propria attività di volontari nella riserva, se il Parlamento avesse approvato la contestata riforma.
Come hanno reagito le potenze regionali?
Dopo l’inizio dell’attacco di Hamas, considerato gruppo terroristico da Unione europea e Usa, diversi Paesi hanno annunciato il proprio sostegno a Israele sulla base del «diritto alla difesa». Il presidente israeliano Isaac Herzog ha, inoltre, fatto un appello alla comunità internazionale affinché ci sia una condanna unanime di Hamas e dei suoi sostenitori in Iran. Quest’ultimo, nonostante sia emerso da un report come abbia fornito armi e indicazioni per geolocalizzare i punti strategici, ha negato – nello ore successive all’attacco – il suo coinvolgimento. «Noi appoggiamo orgogliosamente e incrollabilmente la Palestina, tuttavia non siamo coinvolti nella risposta palestinese (l’attacco a Israele, ndr), che è stata condotta solo dai palestinesi», si legge nel comunicato della missione di Teheran. Tuttavia, sul terreno, né l’Iran, né il suo principale alleato nel Mediterraneo, gli Hezbollah libanesi, milizia sciita, sembrano, almeno per il momento, intenzionati a scatenare una guerra su larga scala contro l’arcinemico israeliano. E questo nonostante lo scambio di fuoco avvenuto tra i jihadisti sciiti libanesi e i militari israeliani lungo la Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Il ministero degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib ha affermato di aver ricevuto la garanzia dai vertici di Hezbollah che non interverrà nel conflitto in corso tra Hamas e Israele se non sarà attaccato dagli israeliani. Citato dall’agenzia libanese al Markaziya ha detto: «Hezbollah ci ha promesso che non intende intervenire nella guerra a Gaza a meno che Israele non commetta un’aggressione» nei confronti del Libano.
Qual è il ruolo dell’Arabia Saudita?
I ministri degli Esteri di Egitto, Giordania e Arabia Saudita hanno parlato con l’Alto rappresentante della politica estera Ue. Josep Borrell, stando a fonti europee, starebbe, inoltre, chiedendo «ai Paesi che hanno un’interlocuzione di Hamas di fare da mediatori per una immediata de-escalation». Il massiccio attacco di sabato avviene, infine, sullo sfondo di un possibile accordo tra Israele e Arabia Saudita per il processo di normalizzazione delle relazioni. Secondo Patrick Wintour sul Guardian ha scritto che in questi anni «si è tentato di far passare la questione israelo-palestinese come una curiosità da leggere nei libri di storia». Nemmeno i Paesi arabi vogliono più saperne, normalizzando di fatto i loro rapporti con Israele; come è avvenuto nel 2020, con gli Accordi di Abramo che hanno coinvolto Emirati Arabi e Bahrein, Marocco e Sudan. E ora, la decisione di Riyad di riconoscere Israele e instaurare relazioni diplomatiche con Tel Aviv – oltre ad essere di portata storica – rappresenterebbe un duro colpo per Hamas e per gli equilibri in Medio Oriente.