Pavia, prof toglie la bandiera palestinese a una studentessa: «Non si manifesta a scuola». La ragazza: «Mi ha accusato di essere pro Hamas»

La giovane portava la bandiera sulle spalle, convocata in presidenza. Ma la vicepreside frena: «Ho solo chiesto di non esporre bandiere a scuola»

Nada Orabi ha 17 anni ed è una studentessa al quarto anno del liceo Adelaide Cairoli di Pavia. I suoi genitori sono egiziani, lei non ha ancora ottenuto la cittadinanza ma, rivendica in un italiano impeccabile, «sono nata e cresciuta qua». A Open è arrivato un video in cui si vede la giovane partecipare a una manifestazione di sostegno al popolo palestinese. Da un palchetto allestito in piazza, accusa di essere stata additata come terrorista da una docente dell’istituto. Secondo il suo racconto, la ragione è quella di aver portato e indossato a scuola la bandiera palestinese. Il fatto è avvenuto lo scorso venerdì, 13 ottobre. Abbiamo contattato sia la studentessa che la professoressa coinvolta nella vicenda, che ricopre anche il ruolo di vicepreside della scuola. Le due versioni si sovrappongono solo in alcuni passaggi e le riportiamo entrambe. «Ho mostrato la bandiera per diverse ore, senza avere problemi. Ce l’avevo avvolta sulle spalle», racconta Orabi. «Mi sono sentita capita dai professori delle prime ore, i quali mi hanno detto che era bello vedermi esprimere la mia opinione come meglio credevo. Poi sono scesa di sotto per le ore di ginnastica». Ed è qui che accade l’episodio definito dalla protagonista come «discriminatorio».


La partita di pallavolo e l’arrivo della vicepreside

Sta per iniziare una partita di pallavolo tra Orabi e compagni contro un’altra classe. L’insegnante di quest’ultima, vedendo la bandiera palestinese in palestra, «è apparsa turbata». In quel momento il vessillo rosso, nero, bianco e verde non lo portava Orabi sulle spalle, ma una sua amica. «L’insegnante dell’altra classe è salita al piano di sopra. Dopo qualche minuto, è tornata in palestra con la vicepreside che mi domanda se la bandiera fosse la mia. Ho risposto di sì e ha chiesto a me e alla mia compagna di seguirla in ufficio». La bandiera viene sottratta alle ragazze e la docente, dopo averla piegata, la docente l’avrebbe trattenuta tra le sue mani. Sarà restituita ad Orabi alla fine del colloquio, «ma solo perché le ho fatto presente che mi serviva per una manifestazione alla quale sarei andata il giorno seguente».


L’accusa di fare propaganda per Hamas

Orabi promette di riportare fedelmente il battibecco che nasce con la vicepreside, «c’era anche la mia compagna di classe nell’ufficio, ne è testimone». La vicepreside, allora, avrebbe rivolto alla ragazza queste parole: «”Non ti vergogni di mostrare questa bandiera in questo momento, dopo gli attacchi terroristici che ci sono stati?”». Non è tutto: «La vicepreside mi ha anche accusato di fare propaganda pro Hamas a scuola. Quando ho replicato, dicendo che sostenevo la causa palestinese, non i terroristi, lei ha cominciato a ricordarmi le scene dei bambini decapitati da Hamas. Mi sono sentita colpevolizzata, ricordandomi quelle immagini era come se volesse farmi sentire responsabile di giustificare gli attacchi terroristici di Hamas». Orabi afferma di averle provato a spiegare che la sua bandiera era in segno di solidarietà alla causa palestinese, non un atto di propaganda del terrorismo: «Le ho risposto che, ovviamente, la condanna di chi uccide civili e bambini è unanime, prescinde dalla posizione politica».

Il sostegno ricevuto dalla sua ex insegnante di diritto

«Non mi ha detto “sei una terrorista” in modo diretto, piuttosto mi ha fatto sentire responsabile degli attacchi perché stavo facendo, a suo dire, propaganda “pro Hamas”». Al telefono, la studentessa ribadisce più volte la sua condanna dell’organizzazione terroristica, «non sarò mai dalla parte di chi uccide civili e bambini», ma è convinta che «ciò che sta avvenendo è il frutto di una serie di errori di diplomazia accumulatisi». Argomenti che ha portato anche nell’ufficio della vicepreside la quale, però, «insisteva sul fatto che i miei discorsi erano delle giustificazioni degli atti terroristici». Alla ragazza sarebbe stato rivolto anche l’augurio che «le manifestazioni pro Palestina venissero bloccate in Italia, così come avvenuto in altri Paesi». Al termine del colloquio, le due ragazze sono state fatte accomodare fuori dall’ufficio. «Sono dispiaciuta perché da parte dei miei insegnanti ho ricevuto sostegno, in particolare dalla mia ex insegnante di diritto, che mi ha detto: “Qua, in questa scuola, non ci sarà mai una dittatura del pensiero. Siete liberi di pensare ciò che volete e di manifestarlo”».

Dal razzismo per il colore della pelle «alle accuse di essere una terrorista»

«Mi sono sentita discriminata perché», riassume Orabi, «la vicepreside ha detto che stavo facendo un atto di provocazione verso gli ebrei. Sembrava, invece, che non le importasse nulla di tutte quelle persone all’interno della scuola che, come me, hanno altre origini. Ci hanno sempre insegnato che gli studenti devono sentirsi liberi, a scuola, e di essere ciò che vogliono. Io mi sono sentita giudicata e discriminata per questioni politiche ed etniche». La studentessa racconta che, in passato, aveva subito diversi episodi di razzismo per il colore della pelle. Adesso la questione si è spostata sul terrorismo: «A scuola alcuni ragazzi, adesso, mi dicono: “Sei una terrorista di Hamas”. Non comprendono che certi commenti fanno star male, soprattutto in un periodo del genere».

Il secondo colloquio

Dopo quel colloquio con la vicepreside, a distanza di poche ore, la ragazza viene richiamata dalla docente: «Si è rimangiata quasi tutto, diceva di essersi spiegata male. Ha cercato di sminuire il tutto sostenendo che voleva solo farmi capire che non si potevano avere bandiere nell’istituto. Non si è scusata, ha detto però di aver agito così per tutelarmi davanti agli altri perché, vedendomi con quella bandiera, avrebbero potuto pensare che fossi favorevole al terrorismo». Orabi rifiuta quel «tentativo di giustificarsi» perché, racconta, «la vicepreside stava in realtà portando ancora avanti l’associazione sbagliata tra bandiera palestinese e Hamas». L’auspicio a un blocco delle manifestazioni pro Palestina, invece, «l’ha motivato dicendo che non voleva mi facessi male partecipandovi». Infine, Orabi accusa la vicepreside di incoerenza: «Avrebbe fatto tutto questo dicendo che nell’istituto scolastico non possono esserci bandiere. Eppure, per un bel po’ di mesi, sono state affisse sul muro della scuola due bandiere ucraine».

La versione della vicepreside

Raggiunta al telefono fisso della scuola, la vicepreside, professoressa Simona Bologna, appare incredula: «Non c’è stata alcuna discriminazione. Ho semplicemente avuto un colloquio con la ragazza in cui le ho chiesto di non manifestare all’interno della scuola, poiché non è consentito. Non le ho nemmeno ritirato la bandiera, mi sono limitata a dirle di non manifestare a scuola». Non era proprio una manifestazione, ma un gesto di solidarietà che la ragazza si sentiva di esprimere con la popolazione palestinese, portando sulle spalle una bandiera: «Anche il corpo docenti è solidale con la popolazione palestinese». Al resto delle accuse, replica così: «Non è mai stata additata come terrorista. Semplicemente, non si possono esporre bandiere a scuola perché è un luogo della pubblica amministrazione. Nemmeno la bandiera della pace possiamo affiggere».

«Parlerò di nuovo con la ragazza: per me i diritti degli ebrei e i diritti dei palestinesi hanno lo stesso valore»

La docente dice di aver voluto convocare la ragazza in ufficio per chiacchierare un po’, «e credevo ci fossimo chiarite, visto che c’è stato un secondo confronto. Domani – 19 ottobre – ci parlerò per la terza volta». Andando a ritroso, conferma che l’episodio della bandiera in palestra le era stato segnalato da «qualcuno» ed è dovuta intervenire come sostituta della preside, che non era a scuola in quel momento: «Ho dovuto far valere una regola di un edificio pubblico. Ripeto, nessuna discriminazione: per me i diritti degli ebrei e i diritti dei palestinesi hanno lo stesso valore». Poi racconta di una conferenza fissata per venerdì 20 ottobre, alla quale parteciperà anche la classe di Orabi e servirà a trattare l’argomento in questione: «Parteciperà anche la ragazza e avrà la possibilità di condividere le sue idee con tutti». L’insegnante conclude la conversazione dicendosi «tranquilla e di provare solidarietà per la ragazza e la sua causa». Poi appoggia il telefono fisso, senza chiuderlo davvero: i commenti che abbiamo sentito e che non riportiamo, però, erano di un tenore ben diverso dalla «solidarietà» nei confronti della studentessa.

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