Viaggio nella varianza di genere degli adolescenti, lo scrittore Geda: «Racconto cosa succede nei centri medici» – L’intervista

L’ex educatore racconta a Open le storie che ha incontrato nell’ambulatorio specializzato dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, raccolte nel suo ultimo libro «Song of Myself»

Un cartellone e l’immagine stilizzata di una persona senza sesso, né genere definiti. Ai ragazzi e alle ragazze è stato chiesto di aggiungere dettagli al disegno con matite e pennarelli. C’è chi disegna un coltello nel fianco, chi una palla da carcerato e chi traccia delle cicatrici. Il risultato? «Un corpo martoriato». Chi ha in mano quelle matite e quei pennarelli sono gli adolescenti seguiti dall’ambulatorio Varianza di Genere dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino e sono i protagonisti di una delle numerose storie raccolte e raccontate da Fabio Geda nel suo ultimo libro, Song of myself. Un viaggio nella varianza di genere, pubblicato da Feltrinelli e in uscita il 5 marzo. Classe 1972 ed ex educatore presso i servizi sociali, Geda si racconta a Open, condividendo come quell’attività di decostruzione e costruzione artistica sia l’episodio che più l’ha colpito nel suo viaggio tra gli adolescenti che affrontano un percorso di affermazione di genere all’ambulatorio di Torino: «Quel corpo martoriato credo rispecchi perfettamente il loro dolore. Un dolore che, durante l’adolescenza, è incarnato nel corpo», commenta lo scrittore. C’è chi, oltre a disegnare, ha scritto: «L’abito non fa il monaco, il pene non fa il ragazzo». Qualcuno, poi, accanto al coltello piantato nel fianco ci ha aggiunto: «Misgendering». Ovvero l’atto (intenzionale o meno) di quando ci si riferisce a una persona con pronomi non in linea con la sua identità di genere.


Come è finito al Regina Margherita di Torino?


«Tre anni fa ho ricevuto una chiamata da Luisa Camurati, l’arteterapeuta del centro, e mi ha raccontato che durante un’attività con gli adolescenti dell’ambulatorio hanno utilizzato un mio libro. O meglio: lo hanno distrutto, staccando pagine e cancellando parole. Poi lo hanno ricostruito a modo loro. “Ti va di venire a vederlo?”, mi ha chiesto. Ci sono andato, ho conosciuto gli adolescenti e le dottoresse del centro. Da lì, in modo molto naturale, è nata una collaborazione più profonda, che mi ha portato a entrare in contatto anche con le famiglie. A un certo punto, da scrittore, mi sono detto “forse sul tema della varianza di genere è importante aggiungere un pezzo di narrazione in più”».

Per chi?

«Vorrei che questo libro finisse tra le mani di chi non sa, di coloro che non sono preparati ad affrontare l’incontro con la varianza di genere. Vedi, molte delle famiglie che ho incontrato al centro mi hanno confidato che prima di iniziare un percorso con il proprio figlio non erano preparate. E tante di loro hanno faticato e lottato anni per trovare supporto, informazioni e risorse adeguati. Un caso che mi ha colpito, ad esempio, è la storia di Sofia, ora maggiorenne e fuori dal centro. Sua madre mi ha raccontato come Sofia fin dai primi anni di vita abbia manifestato in tante forme di essere una persona trans. Lo è sempre stata, ma loro non erano preparati culturalmente a capirlo. Hanno girato specialisti per anni per capire cosa stesse accadendo alla figlia. E la prima volta che hanno sentito la parola “disforia di genere” è stato quando Sofia aveva già 14 anni».

Vi è, quindi, una carenza anche nella formazione del personale medico sul tema?

«C’è senza dubbio un grande problema sociale di formazione del personale. Parlo di medici, professori, ma anche educatori. Questo fa sì che le famiglie che cercano aiuto facciano fatica a trovarlo. E, aggiungo, le istituzioni non possono permetterselo: devono agire affinché ogni famiglia che si trova ad avere un bambino, una bambina o un adolescente che manifesta una forma di varianza di genere, sappia a chi rivolgersi per ottenere aiuto, essere ascoltata e accompagnata».

Nel libro ci sono le storie di chi incontri, i dialoghi che ascolti, ma anche le sue osservazioni: il resoconto pare essere quello di un osservatore partecipante. Lei che difficoltà ha incontrato?

«Considera un aspetto: stai parlando con qualcuno che da sempre fa i conti con la sindrome dell’impostore. Da subito, mi sono detto: stai fuori dalla storia, sii una sorta di telecamera che inquadra quel che vede in modo oggettivo. Non volevo occupare spazio con la mia voce. Poi, però, mi sono accorto che non funzionava».

Una sorta di timore nei confronti degli adolescenti e della loro storia?

«Sì, esatto. Quando ho parlato con la responsabile dell’ambulatorio, la dottoressa Chiara Baietto, le ho detto apertamente i miei dubbi: “Non so se sono in grado, non so se ho la delicatezza giusta”, continuavo a dirle e a dirmi. Lei, però, è riuscita a sbloccarmi dicendomi: “Hai sempre lavorato con gli adolescenti. Inizia a pensarli come adolescenti”. È significativo come già leggesse in me l’errore più banale in cui si rischia spesso di cadere: pre-incasellarli nella categoria persone trans».

Un pregiudizio/paura comune che, secondo lei, guida anche la narrazione mediatica di ciò che riguarda il mondo delle persone trans e più in generale della varianza di genere?

«Su questo credo siano due i problemi principali: la superficialità e l’ideologia. Molte delle cose che leggiamo sui media sono testi fortemente ideologici, soprattutto quelli provenienti dal campo reazionario e dalle associazioni Pro-vita, che spesso creano spauracchi intorno alla cosiddetta “teoria del gender”. Questo atteggiamento ideologico è il primo problema. Il secondo è la superficialità con cui vengono trattati argomenti complessi. Talvolta, mi è capitato di veder tratteggiare questo mondo come un mondo di persone che si divertono a cambiare genere, farsi operare o travestirsi. Tutto questo mi fa infuriare. Temi come l’incongruenza di genere richiedono un’analisi approfondita che non può essere ridotta a slogan. Persino gli esperti faticano ancora a parlare di questi argomenti perché sono stati trascurati per troppo tempo, sia dal punto di vista scientifico che sociale. È importante capire che queste tematiche richiedono tempo, impegno e un approccio aperto».

Ritiene che anche la politica, in particolare il governo attuale, abbia una responsabilità in questo senso?

«Penso che il loro comportamento sia vergognoso. C’è una questione ideologica che inquina completamente la discussione. Ma credo anche che agiscano per motivi puramente elettorali, senza preoccuparsi delle conseguenze. È chiaro che vi sia un attacco feroce contro la comunità lgbtqia+ e talvolta terrorismo psicologico».

È il caso del centro per l’incongruenza di genere Careggi di Firenze, dove il governo ha mandato i suoi ispettori?

«Sì, ma parlo anche di tutto il linguaggio con cui l’argomento viene trattato. C’è chi sul tema dei farmaci bloccanti della pubertà ha avuto il coraggio di parlare di “scandalo dei bambini trans”. Quando sento l’uso della parola bambini, mi arrabbio ancor di più. Se c’è una categoria davvero tutelata dai centri specialistici sono i bambini».

A proposito di centri specialisti: il percorso sia medico che legale che devono affrontare le persone trans è particolarmente lungo e contorto. Quanto siamo distanti dall’autodeterminazione di genere?

«Spero poco. Al contempo, quando si tratta di adolescenti, penso sia importante che gli adulti li proteggano e li guidino. Al centro di Torino ho trovato grande serietà e professionalità in questo senso. I ragazzi spesso vorrebbero fare tutto subito, il che è comprensibile, ma quando si ha quell’età non sempre si riesce a comprendere da soli quale sia la scelta più appropriata, specialmente dal punto di vista medico. Sicuramente, però, credo che alcuni aspetti burocratici vadano snelliti. La Ley Trans in Spagna ci dice che è possibile, ad esempio, che una persona possa autodeterminare la propria identità di genere sui documenti: un buon esempio da seguire».

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