Decine gli interventi dei Vigili del Fuoco per frane e smottamenti nel Nord-Ovest. Stasera atteso il capo della Protezione Civile Curcio
Arriverà questa sera in Val d’Aosta anche il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, per fare il punto della situazione dopo l’alluvione che da ieri sera ha colpito diverse località della regione e isolato in particolare il Comune di Cogne. Nella nota località turistica montana, dopo la frana che ha bloccato la strada d’accesso in frazione Epinel e le piogge torrenziali, ora «l’urgenza principale è l’evacuazione delle persone che devono scendere a valle», fa sapere il sindaco Franco Allera raggiunto dall’Ansa. «Lo stiamo facendo con dei voli in elicottero, ne abbiamo già portati giù tantissimi, almeno 300, ne abbiamo comunque ancora da portare credo altrettanti, ma i numeri non sono precisi per ora». Un’operazione necessaria, anche perché gran parte del paese risulta essere senz’acqua: «L’acquedotto è stato portato via dal torrente, stiamo pensando a una riparazione provvisoria da realizzare, tra stasera a domani, per riuscire a riempire la vasca di carico», spiega ancora il sindaco. «Questa emergenza sta mettendo alla prova la Valle d’Aosta, ma ha fatto emergere lo spirito di comunità, il senso del dovere e la grande professionalità di tutte le strutture impegnate senza interruzione da ieri», segnala il presidente della Regione Renzo Testolin. Dopo la riunione della Giunta regionale, l’amministrazione sta in queste ore predisponendo il decreto di calamità, cui seguirà la richiesta al Dipartimento nazionale di Protezione civile per ottenere il relativo supporto.
L’ondata di maltempo abbattutasi da sabato sera su Piemonte e Valle D’Aosta ha causato piene di torrenti, frane e smottamenti in diverse aree del Nord-Ovest. I vigili del fuoco sono intervenuti nelle province del Verbano e di Torino. A Locana sono state trasferite ieri in una zona sicura 37 persone che erano rimaste bloccate in un ristorante. A Mathi, sempre provincia di Torino, sono state evacuate precauzionalmente due famiglie a causa dell’esondazione del fiume Stura di Lanzo. Ieri notte tra Montanaro e San Benigno Canavese le squadre di soccorso hanno salvato due adulti e una neonata di 3 mesi bloccati in auto per l’innalzamento dell’acqua del torrente Orco. Due morti e un disperso sono il triste bilancio del nubifragio nel Canton Ticino. In Vallemaggia, secondo quanto riportano le testate della Svizzera italiana, i violenti temporali hanno causato un’importante frana in zona Fontana. Le autorità svizzere comunicano che sono state recuperate dai soccorritori della Rega le salme di due persone, attualmente in fase di identificazione. Sono attive le ricerche di una terza persona dispersa.
«Ieri sera dopo che la situazione è peggiorata è stato evacuato il campeggio Gran Paradiso. Nel nostro albergo abbiamo accolto gli sfollati, quelli che abbiamo potuto, circa 30 persone», ha raccontato all’ANSA Christine Cavagnet, che con la sua famiglia gestisce l’hotel Herbetet, in Valnontey, frazione di Cogne, tra le zone più colpite. L’albergatrice ieri sera non era a Cogne e, quando l’unica strada di collegamento con il paese è stata chiusa per un dissesto, attorno alle 20, non è potuta rientrare. Per ora sta cercando di raggiungere il paese in elicottero, unico mezzo spiega l’agenzia, utilizzabile al momento.
Il sindaco di Quarona: «Evento distruttivo»
«Un evento drammaticamente distruttivo», ha commentato all’Ansa il sindaco di Quarona (Vercelli) e presidente dell’Unione montana della Valsesia. Francesco Pietrasanta racconta il nubifragio che si è abbattuto sulla zona. «Non sembrerebbe – sottolinea – che ci siano dei feriti, ma i danni sono molti. Un abbraccio a tutte le comunità coinvolte». Nella zona colpita vi sono stati smottamenti e danni ai ponti. Una ventina di campeggiatori sono rimasti isolati.
Solleva non pochi interrogativi l’aumento esponenziale e costante delle certificazioni di disabilità e dsa nelle scuole italiane. Con oltre 338mila alunni con disabilità, pari al 4,1% degli iscritti, il sistema scolastico è chiamato a fare i conti con un trend che cresce nonostante il calo demografico e la riduzione generale del numero degli studenti. Dietro i numeri si cela una realtà complessa: accanto ad un avanzamento della capacità diagnostica, assistiamo ad un fenomeno che rischia di trasformarsi in una medicalizzazione eccessiva dei bambini e dei ragazzi, alimentando – secondo alcuni esperti – l’isolamento invece che l’inclusione. In questo scenario, dove gli studenti diminuiscono ma aumentano quelli con disabilità, è stato necessario incrementare il numero di insegnanti di sostegno. Osservando la curva storica, dai 335 mila dell’anno scolastico 1960/1961 siamo passati ai 944 mila del 2022/2023 (dati Istat). Il rapporto alunno-docente di sostegno è molto positivo, pari a 1,6, migliore di quello previsto dalla legge (1,2). Tuttavia, 1 insegnante su 3 non ha una formazione specifica e il 12% viene assegnato in ritardo, tema che è attualmente oggetto di analisi presso la Commissione Cultura alla Camera con il decreto scuola n. 71/2024. Quest’ultimo prevede tre principali interventi: l’introduzione di una nuova offerta formativa di specializzazione sul sostegno per ridurre la carenza cronica di docenti specializzati; nuovi percorsi per ottenere più rapidamente l’idoneità al sostegno per chi ha il riconoscimento del titolo svolto all’estero in sospeso; la possibilità di garantire continuità didattica ai docenti con contratto a tempo determinato su richiesta della famiglia, previa valutazione del dirigente e nell”interesse dell’allievo.
Cultura, scienza, educazione: le cause dell’aumento di diagnosi
«Alla radice c’è un’eccessiva medicalizzazione degli studenti», spiega a Open Raffaele Iosa, che è stato maestro, direttore didattico, ispettore scolastico e per anni responsabile dell’Osservatorio Ministeriale sulla disabilità. Da sempre in prima linea sui temi legati alla disabilità, Iosa offre una prospettiva critica sull’aumento esponenziale di diagnosi di disabilità nelle scuole. A suo avviso, sono tre i fattori principali che hanno contribuito a questo trend: il cambiamento culturale, l’evoluzione dell’approccio scientifico e una trasformazione delle relazioni educative. «Da un lato, l’idea di salute e benessere è mutata, con un tipo di attenzione alle esperienze di vita dei bambini e alla loro crescita che spesso sfocia in una preoccupazione eccessiva per qualsiasi cosa non vada; dall’altro lato, l’approccio scientifico si è evoluto verso un modello legato ai sintomi più che alla persona, e non dimentichiamoci che ha dato vita a un vero e proprio mercato», spiega Iosa. «Moltissimi dei bambini con i cosiddetti “comportamenti problema” non hanno una natura clinica, ma relazionale ed educativa. Se le relazioni educative nei confronti dei figli si trasformano, come accade sempre di più oggi, nell’idolatria o, al contrario, nella delusione del figlio, si genera un eccesso di attese nei confronti di bambini e ragazzi che, di fatto, poi genera proprio quei “comportamenti problema”».
I rischi: «Studenti eternamente disabili»
Con queste premesse, il rischio dietro l’angolo è che la diagnosi venga percepita dai genitori come «salvifica» per il figlio. Tuttavia, avverte Iosa, potrebbe generarsi un effetto perverso, dove – in alcuni casi – la certificazione rischia di trasformarsi in una gabbia invisibile che limita il potenziale degli studenti. «Dalla mia esperienza e dalle mie ricerche, posso affermare che le certificazioni o le diagnosi tendono a ridurre le aspettative nei confronti dei bambini, anziché aumentarle. Ci si accontenta, creando una sorta di effetto iatrogeno (effetto collaterale dovuto a un errore diagnostico, ndr), dove l’idea che ho di quel bambino, a causa della diagnosi o certificazione, è inferiore a ciò che lui potrebbe realmente raggiungere. Di conseguenza – prosegue l’esperto -, aspettandomi meno da lui, finisco per offrirgli meno, portando molti insegnanti a comportarsi in modo quasi assistenziale. Invece di aiutarli a crescere, li manteniamo eternamente disabili».
Le disabilità più frequenti: cosa dicono i dati
Stando ai dati Istat più recenti, la disabilità intellettiva è il problema più frequente tra gli alunni, colpendo il 37% degli studenti con disabilità. Percentuale che cresce significativamente nelle scuole superiori di primo e secondo grado, raggiungendo rispettivamente il 42% e il 48%. Seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (32%), con una prevalenza nella scuola dell’infanzia (57%). Frequenti anche i disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione che colpiscono quasi un quinto degli alunni con certificazione, con maggiore diffusione nelle scuole secondarie di primo grado. Meno frequenti le disabilità motorie (10,5%) e quelle visive o uditive (circa 8%). Dato significativo è che il 39% degli alunni con disabilità presenta più di un tipo di problema (pluridisabilità), condizione più frequente tra chi soffre di disabilità intellettiva che tocca il 54% dei casi. Quasi tutti gli alunni con disabilità (97%) hanno una certificazione che consente l’attivazione del sostegno scolastico. A questa percentuale si aggiunge una quota marginale di studenti (1,3%) che, pur non disponendo di una certificazione formale, usufruiscono del sostegno didattico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di alunni in attesa di certificazione o con problematiche ‘borderline’, ai quali la scuola decide di dedicare una parte delle risorse disponibili. Il sostegno si attiva per coloro che rientrano nella Legge n.104 del 1992. Per coloro che rientrano nella legge 170, che tutela il diritto allo studio dei bambini e ragazzi con Dsa, è possibile attivare misure «compensative» e «dispensative», ma non il docente di sostegno.
Isolamento, non inclusione
La parola chiave che permea tutto questo scenario, ritiene Iosa, è isolamento. «Ogni mattina, tutti i bambini e ragazzi entrano dallo stesso portone di scuola, ma una volta dentro, non vivono la stessa scuola», commenta l’ex insegnante. «Alcuni non vanno nell’aula assieme ai compagni, e proliferano le cosiddette Aule H, luoghi separati dove l’insegnante di sostegno assume quasi il ruolo di guardiano, anziché diventare un ponte di relazione e interazione con l’intera classe», continua Iosa. «Non sorprende, quindi, che molti ragazzi con disabilità siano spesso esclusi dalle feste di compleanno o dimenticati durante le gite scolastiche», prosegue. E, aggiunge l’esperto, è dietro l’angolo il rischio che si torni a un approccio simile a quello delle scuole speciali. «Certamente ci sono casi virtuosi in cui gli istituti riescono a promuovere un’inclusione positiva, ma nella maggioranza dei casi ci si muove nella direzione opposta. E questo aspetto diventa particolarmente critico nella scuola superiore, dove i ragazzi affrontano l’adolescenza e la relazione con gli altri è ancor più centrale».
La proposta di legge
L’ex coordinatore dell’Osservatorio sulla disabilità nota con preoccupazione il silenzio del mondo clinico sulle ragioni dell’esplosione delle certificazioni di disabilità. «Non c’è ricerca», afferma perentorio Iosa. «Il tipo di terapie che vengono proposte sono significative: è quasi tutto terapeutico e poco educativo. Si parte dai deficit anziché dai potenziali delle persone», osserva. Per invertire la rotta della medicalizzazione e rompere l’idea del «sostegno isolante», Iosa ha lavorato a una proposta di legge, assieme a un gruppo di esperti di inclusione scolastica, per l’«Introduzione della cattedra inclusiva». La proposta prevede che, entro sei anni dall’entrata in vigore della norma, tutti i docenti incaricati su posti comuni dedichino una parte del loro orario a incarichi di sostegno, e viceversa. L’obiettivo è attenuare il ruolo dominante dell’insegnante di sostegno sull’alunno con disabilità e coinvolgere maggiormente gli insegnanti comuni e, di conseguenza, la classe.
Un fenomeno non (solo) italiano: le origini negli Usa
L’aumento delle certificazioni non è un fenomeno (solo) italiano. Nasce su spinta degli Stati Uniti e ha poi esteso la sua influenza anche in Europa. Nell’anno scolastico 2022-23, gli studenti americani tra i 3 e i 21 anni, beneficiari dei servizi dell’IDEA (Individuals with Disabilities Education Act, la legge che negli Usa garantisce un’istruzione pubblica gratuita e adeguata per gli alunni con disabilità), sono 7,5 milioni, pari al 15% degli studenti delle scuole pubbliche. La certificazione più comune nelle scuole americane riguarda i disturbi specifici dell’apprendimento, che raggiungono quota 32%, seguiti dai disturbi del linguaggio o della parola (19%), altri problemi di salute (15%) e autismo (13%). Gli studenti con deficit dello sviluppo, disabilità intellettive e disturbi relazionali rappresentano rispettivamente il 7%, 6% e 4% degli studenti con disabilità. Problemi di udito, visivi e sordocecità sono solo il 2% circa.
Insegnanti di sostegno: pochi specializzati, tanti precari
Il tema della disabilità a scuola è complesso e stratificato. Se da una parte c’è attenzione per l’aumento degli studenti diagnosticati, dall’altra sembra esserci una nota positiva nell’incremento del numero di insegnanti di sostegno. Ma, a questo proposito, Manuela Calza della Flc Cgil mette in luce a Open una questione cruciale: «Il vero problema sono le condizioni in cui lavorano questi docenti, che soffrono di tassi di precarietà molto alti. Sul sostegno, un insegnante su due è precario». Precarietà in parte dovuta al fatto che molti posti sono in deroga, cioè aggiunti all’organico di diritto e coperti con contratti annuali. C’è poi, aggiunge la sindacalista, «una grave carenza di insegnanti specializzati, impedendo assunzioni a tempo indeterminato per coloro che potrebbero averne diritto». I dati Istat confermano: più di 67mila insegnanti di sostegno (30%) sono selezionati dalle liste curricolari, quindi senza una formazione specifica. Fenomeno più frequente al Nord, dove il 42% degli insegnanti curricolari svolge attività di sostegno, rispetto al 15% del Mezzogiorno. Calza spiega che il problema risiede innanzitutto nel sistema di formazione iniziale, che non riesce a soddisfare le esigenze del sistema scolastico. «I corsi di specializzazione per il sostegno sono a numero chiuso, con contingenti inadeguati e una distribuzione regionale inversamente proporzionale al bisogno reale. Inoltre – conclude – i costi di questi corsi sono elevati, vanno dai 3 ai 4 mila euro all’anno, scoraggiando molti insegnanti dal proseguire questa strada».