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Referendum, terremoto nel Pd per la lettera dei riformisti dem. Sensi: «Non è un messaggio in bottiglia alla segretaria Elly Schlein» – L’intervista

13 Maggio 2025 - 19:50 Sofia Spagnoli
filippo sensi pd referendum
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Il senatore dem: «Alle caserme io preferisco sempre le piazze, dove la gente si confronta e discute»

Il referendum dell’8 e 9 giugno difficilmente raggiungerà il quorum, ma molto più facilmente è riuscito a dividere ulteriormente il Pd. L’ennesima conferma è arrivata questa mattina: un gruppo di deputati ed eurodeputati dem dell’area riformista (la più lontana da quella della segretaria Elly Schlein) ha pubblicato sul quotidiano La Repubblica una lettera in cui annuncia l’intenzione di recarsi alle urne e votare “sì” al quesito sulla cittadinanza e a quello sulle imprese appaltanti. Ma si asterrà sugli altri tre referendum, che puntano ad abrogare parti del Jobs Act, la riforma del lavoro firmata da Matteo Renzi durante il suo mandato da presidente del Consiglio. Una scelta non solo politica ma anche simbolica. «Rimane l’ultimo provvedimento organico sul lavoro varato in Italia, pensato per armonizzare la nostra disciplina a quella degli altri Paesi europei», si legge nella nota. Per i riformisti, abrogarlo significherebbe chiudere una stagione alla quale restano profondamente legati. Una posizione che si discosta da quella espressa da Elly Schlein, che ha più volte dichiarato il proprio sostegno all’intero pacchetto referendario. Insomma, l’unità interna resta ancora un obiettivo lontano. Ne abbiamo parlato con il senatore Filippo Sensi, uno dei firmatari della lettera, insieme a Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno e Lia Quartapelle. Legittimando anche la posizione pro astensione, contro i i vertici del Pd e di +Europa hanno in campo un’ulteriore polemica con la maggioranza.

Senatore, la vostra lettera su Repubblica è un messaggio alla segretaria o al Paese?

«No, la lettera è una lettera al direttore. Non era un messaggio in bottiglia alla segretaria Elly Schlein».

Però a guardarla da fuori, sembra che queste tensioni si consumino più nei giornali che dentro il partito…

«Si tratta semplicemente di una presa di posizione pubblica. C’è un referendum tra un mese, ricordiamolo. Il partito si è schierato con una linea molto chiara: quella del sì. Resta però il fatto che, come la segretaria ha dimostrato, nel Pd convivono identità, sensibilità e storie diverse. In questo senso, abbiamo sentito la necessità di prendere una posizione pubblica, per spiegare come ci comporteremo e quale sarà il nostro orientamento rispetto al referendum. Non c’è la volontà di fare una battaglia politica dentro al partito. Abbiamo semplicemente una responsbailità».

Negli ultimi mesi vi abbiamo visti divisi su diversi temi. Prima sul Piano di riarmo europe, ora sul lavoro. Cosa sta succedendo veramente nel partito?

«È ciò che accade nei grandi partiti, dove al loro interno convivono sensibilità diverse. È così ovunque, non solo in Italia. Pensiamo al Regno Unito, per esempio. Ma lo stesso vale anche per i Democratici americani. Pensa che tutti siano d’accordo con Kamala Harris? Ovviamente no».

Non crede però che queste divisioni rischino di rafforzare ulteriormente la maggioranza?

«Alle caserme io preferisco sempre le piazze, dove la gente si confronta e discute. Non mi azzardo a dire che quella di FdI sia una caserma, sia chiaro. Ma certo è che non sono invidioso dei partiti dove c’è un solo uomo al governo. Nel Pd, diverse storie dialogano, litigano, ma alla fine trovano una linea comune».

Ieri Renzi ha definito un “autogol” l’idea di abrogare una legge voluta dal centrosinistra, mandando Landini a discuterne con Giorgia Meloni.

«Guardi, io questo non lo so. Il Jobs act è una legge del 2015 che ha avuto una storia travagliata e che, nel corso degli anni, è stata profondamente modificata. Oggi è un provvedimento molto diverso rispetto alla sua versione originaria. Allo stesso tempo, però, sono rimaste tante cose positive, per fortuna. Come le dimissioni in bianco o la Naspi. Per questo motivo, credo che un referendum su una legge di dieci anni fa non sia lo strumento adatto. Non penso che possa portare un reale vantaggio ai lavoratori».

E quindi cosa servirebbe ai lavoratori?

«Tante cose. A partire dalla messa a fuoco sugli stipendi e sul potere d’acquisto dei lavoratori, passando per il tema della formazione, della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, fino al salario minimo. Serve una strategia complessiva, fatta di molte scelte concrete. Non credo ci sia un colpo di bacchetta magica in grado di risolvere tutto, e tantomeno questo referendum può essere la soluzione ai problemi strutturali del mondo del lavoro. Sono tante le cose da considerare, ecco».

Forse c’è l’urgenza di organizzare un congresso…

«Penso che ci siano altre priorità rispetto al congresso, come le elezioni regionali e amministrative. Poi, se qualcuno ritiene che ci debba essere un confronto, va bene, ma non mi sembra che questa sia la questione principale al momento»

E dunque, in sintesi, cosa farà l’8 e 9 giugno?

«Voterò sì ai referendum su cittadinanza e subappalti, e non ritirerò le altre tre schede. Andrò comunque al voto, perché credo nella partecipazione, ma allo scrutatore dirò chiaramente: “Queste tre schede non le prendo, grazie”».

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