Fine vita, la (nuova) strigliata della Consulta: «Limiti attuali corretti, ma serve la legge». E il Senato litiga ancora


È arrivata oggi, martedì 20 maggio, la quarta pronuncia della Consulta sul fine vita. La sentenza numero 66 ha stabilito che «non è costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale». Le questioni di legittimità costituzionale sollevate sono state ritenute non fondate. La Corte era stata chiamata ad esprimersi a seguito del quesito di costituzionalità sollevato dal tribunale di Milano a proposito dell’articolo 580 del Codice penale, nella parte in cui sanziona l’aiuto al suicidio anche nei confronti di persone affette da una patologia irreversibile, ma non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. Le vicende che hanno dato origine al quesito risalgono all’agosto e al novembre 2022, quando Marco Cappato si autodenunciò per aver accompagnato una paziente oncologica e uno affetto da Parkinson in una clinica Svizzera. Intanto, i relatori al Senato Pierantonio Zanettin (FI) e Ignazio Zullo (FdI) non presentano il testo unificato sul fine vita, al contrario di quanto annunciato la scorsa settimana.
Il requisito del trattamento salvavita: quando è legittimo limitare l’accesso al suicidio assistito
La Corte ha richiamato quanto già precisato nella sentenza numero 135 del 2024, ossia che «Il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale si considera integrato quando vi sia l’indicazione medica della necessità di tale trattamento per assicurare l’espletamento delle funzioni vitali». In altri termini, in ogni situazione in cui l’omissione o l’interruzione del trattamento medico comporterebbe la morte del paziente in un breve lasso di tempo. La Corte ha inoltre specificato che non è necessario che il paziente sia tenuto ad iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire. È però legittimo e non discriminatorio, secondo la Consulta, limitare l’accesso al suicidio assistito ai soli pazienti costretti a una terapia salva vita.
Il margine di discrezionalità del legislatore
Nella stessa sentenza la Corte ha sottolineato che il legislatore gode di «significativo margine di discrezionalità» e che, qualora lo ritenesse, potrebbe adottare provvedimenti che divergono dall’indirizzo corrente. Nell’idea della Corte tale margine di discrezionalità «serve a bilanciare il dovere di tutela della vita umana, derivante dall’art. 2 della Costituzione, e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che riguardano il proprio corpo, che è un aspetto del diritto al libero sviluppo della persona». Tale discrezionalità legislativa deve comunque tener conto delle necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato.
La Corte ribadisce il dovere dello Stato di garantire sostegno e cure
In conclusione la Corte Costituzionale ha sottolineato che i principi essenziali individuati nel 2019 per escludere la punibilità del suicidio assistito, ossia: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza dello stesso da trattamenti di sostegno vitali e la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli sono essenziali anche nei loro risvolti sociali. Il loro rispetto aiuterebbe a «contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso». La Corte ha rammentato che costituisce preciso dovere della Repubblica «garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perche’ la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e puo’ costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte» e che oggi in Italia sono ancora troppe le difficoltà all’accedere alle cure paliative.
Il ddl sul fine vita fermo in commissione al Senato
La giornata di oggi è stata tra l’altro contraddistinta anche dalle polemiche scoppiate nel Comitato ristretto della Commissione Affari Sociali di Palazzo Madama. I relatori Pierantonio Zanettin e Ignazio Zullo non hanno presentato, diversamente da quanto comunicato la scorsa settimana, il testo unificato sul fine vita. Zanettin ha ammesso: «Il Comitato ristretto era stato convocato per oggi proprio per presentare il testo unificato. Ma al momento non c’è una condivisione, pertanto andiamo avanti con i lavori e vediamo». È arrivato subito il secco commento del senatore del Pd Alfredo Bazoli: «La maggioranza è spaccata, non vogliono entrare nel merito di nessuna questione. Sono 5 mesi che c’è questo Comitato ristretto e l’unica cosa che sono riusciti a fare è perdere tempo perché la maggioranza è divisa e non è in grado di trovare un compromesso. E’ intollerabile». Sulla stessa linea la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: «Basta ritardi. Abbiamo abbandonato i lavori del comitato ristretto sul fine vita, perché la destra sta prendendo in giro il Parlamento e gli italiani. E’ inammissibile che dopo mesi in Commissione, una legge importante che risponderebbe alle sofferenze di tante persone, sia ancora ai blocchi di partenza. Una destra disumana impugna la legge regionale toscana e boicotta una legge di civiltà, necessaria e urgente. Non sono d’accordo tra di loro e bloccano tutto» E intanto spunta un ulteriore disegno di legge sul fine vita presentato dalla senatrice Maria Stella Gelmini che potrebbe essere abbinato ai testi già presenti in commissione. Il rischio è che i lavori possano ulteriormente allungarsi e che al temine ultimo per la presentazione in aula, il 16 luglio, si possa arrivare con diverse proposte ma nessuna completa, o con una proposta a firma Alfredo Bazoli del Pd che verrebbe probabilmente bocciata dalla maggioranza.