Acciaio europeo in ostaggio dei dazi Usa. L’ad di Cogne: «Con Trump il mercato è in attesa, impossibile competere» – L’intervista


È passato esattamente un mese da quando Donald Trump ha alzato al 50% i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. Una mossa che ha colto di sorpresa gli stessi operatori del settore, già colpiti dalle politiche protezionistiche del presidente americano durante i suoi primi quattro anni alla Casa Bianca. «Il mercato è in una posizione di attesa», spiega a Open Massimiliano Burelli, amministratore delegato di Cogne Acciai Speciali. Il suo gruppo possiede stabilimenti produttivi in nove Paesi – tra cui Italia, Stati Uniti e Cina – e offre un osservatorio privilegiato da cui guardare le trasformazioni con cui è alle prese il settore dell’acciaio: non solo i dazi americani, ma anche la concorrenza asiatica, gli alti costi dell’energia e gli obiettivi di transizione imposti dal Green Deal europeo.
I dazi Usa al 50% sull’acciaio sono in vigore da un mese. Che impatto hanno avuto sul settore e sulla vostra azienda?
«Innanzitutto bisogna avere presente una cosa: negli ultimi anni l’economia americana si è basata in larga parte sulle importazioni di acciaio e non sulla produzione interna. Nel 2024 nel mondo sono stati prodotti 1 miliardo e 800 milioni di tonnellate di acciaio, di cui un miliardo in Cina, 130 milioni in Europa e soltanto 80 milioni negli Usa. Con l’arrivo dei dazi, il consumo di acciaio non si è ridotto ma il prezzo è aumentato».
Come hanno reagito i vostri clienti negli Usa all’aumento dei dazi?
«Alcuni trasformatori americani non hanno avuto alternativa e hanno continuato a comprare anche con un dazio del 50%, ma la stragrande maggioranza dei clienti si è messa in una posizione «wait and see» (aspetta e vedi – ndr), perché il 50% è una percentuale impraticabile. Il mercato, in generale, è in una posizione di attesa, perché si aspetta di capire cosa avverrà il 9 luglio (giorno in cui scade la “tregua” commerciale tra Usa e Ue – ndr). La preoccupazione più grande in questo momento è la mancanza di certezze, che sono imprescindibili per poter pianificare il futuro».
Se i dazi sull’acciaio rimarranno al 50% come reagirete?
«Le alternative ci sono, le stiamo valutando. Il nostro gruppo ha 13 stabilimenti produttivi in giro per il mondo, tra cui uno nel Regno Unito che potremmo usare come ponte per spedire negli Usa, da dove arriva il 10% circa del nostro fatturato. C’è chi sta pensando di spostare parte della produzione negli Stati Uniti, ma si tratta di un passo che ha tempi molto lunghi: i tempi tecnici per aprire uno stabilimento produttivo sono di circa due anni. Il mercato americano rimane importante per noi, ma con dazi al 50% diventa impensabile competere. Stiamo già cercando mercati alternativi all’interno dell’Ue, che industrialmente è molto più forte di quello che crede. L’aumento del budget destinato alle spese militari e la conversione di alcuni produttori di automobili al mondo della difesa faranno crescere la domanda di acciaio».

Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ha detto a Open che teme un’invasione di acciaio dalla Cina più ancora dei dazi americani. Succederà?
«Più che dalla Cina, direi dall’Asia. Nell’acciaio inox, per esempio, l’India è molto forte. Tutto quello che esce dall’Asia ha due mercati di riferimento: Usa e Ue. Se i dazi di Trump venissero confermati anche per i Paesi asiatici, ci troveremmo di fronte, come successo nel marzo 2018, allo spostamento di masse importanti di acciaio dagli Usa verso l’Europa. Sta alle istituzioni europee creare le condizioni per evitare che questo accada».
In che modo?
«Ci sono dazi anti-dumping, misure di salvaguardia e tanti altri strumenti che si possono attivare, ma bisogna agire con estrema velocità».
Il gruppo che lei guida ha stabilimenti produttivi in Europa, Stati Uniti e Cina. Quanto cambiano i costi di produzione da Paese a Paese?
«In Europa il costo del lavoro è abbastanza allineato e lo stesso vale anche per le regole del gioco. Negli Stati Uniti il costo del lavoro non è basso ma i turni di lavoro sono più lunghi, quindi tutto sommato non cambia più di tanto. In Cina e in Messico i costi sono ovviamente più bassi, ma il mercato cinese paga un prezzo cinese per l’acciaio, non un prezzo europeo, e quindi tutto è allineato. Nel caso degli Stati Uniti, poi, c’è un altro scoglio con cui deve fare i conti la spinta all’industrializzazione voluta da Trump: la scarsa disponibilità di manodopera e la difficoltà delle imprese nel trovare lavoratori».
Torniamo per un attimo in Europa. Quanto pesano gli obiettivi del Green Deal per il vostro settore?
«Noi abbiamo iniziato da tempo un processo di efficientamento, riduzione dei consumi e utilizzo di energia verde. Gli obiettivi, quando sono pragmatici e non dogmatici, vengono seguiti e non è impossibile stare al passo. Noi, per esempio, compriamo il 100% di energia verde in tutti gli stabilimenti europei. Ad Aosta stiamo costruendo una mini centrale idroelettrica sul fiume Dora che alimenterà un elettrolizzatore e ci darà 100 tonnellate all’anno di idrogeno».
Il Clean Industrial Deal proposto dalla Commissione europea punta a tendere la mano ai settori più energivori. Pensa che l’Ue stia facendo abbastanza per sostenere l’industria nella transizione verde?
«Non mi fido dei proclami. Voglio vedere i decreti attuativi, perché il diavolo sta nei dettagli. In ogni caso, ritengo che quello che c’è scritto nel piano per l’industria europea può indubbiamente aiutare la competitività delle imprese italiane, a partire dalle misure di supporto per il costo dell’energia, che ad oggi è oggettivamente svantaggioso per l’Italia. Tutto ciò che aiuta le aziende in modo intelligente e riesce a livellare il piano competitivo è apprezzato e aiuta la decarbonizzazione».
L’acciaio è fondamentale per la difesa, per il nucleare e per molte clean tech legate alla transizione energetica. Ma allora perché il settore è così in affanno?
«Credo ci siano ancora tante percezioni negative nei confronti dell’industria manifatturiera, che viene vista come inquinante anche se non è sempre vero. Se si entra in un’azienda siderurgica oggi non si vedono più polvere, fumo, rumore e odore. Al contrario: c’è un ambiente organizzato, pulito e ben ordinato. La produzione di acciaio è strategica per ogni nazione e per questo ogni governo dovrebbe creare le condizioni perché il tessuto produttivo rimanga solido, vitale e competitivo».
Foto copertina: EPA/Erik S. Lesser