«Colleghi giovani troppo rumorosi»: il caso di una lavoratrice di 66 anni che fa ricorso per «molestie legate all’età»


Il tribunale del lavoro di Watford, a 30 chilometri a nord-ovest di Londra, ha stabilito che le lamentele di un’impiegata sessantaseienne, infastidita dai colleghi ventenni e trentenni troppo rumorosi e inclini alla socializzazione, non possono essere considerate come «molestia legata all’età». La vicenda, riportata dal Guardian, riguarda Catherine Ritchie, assunta come amministratrice in un’azienda di ingegneria elettrica dell’Hertfordshire quando aveva 66 anni. Essendo la più anziana in ufficio, ha raccontato di aver vissuto quotidianamente un clima caotico, con giovani colleghi intenti a chiacchierare, guardare il telefono e socializzare durante l’orario di lavoro. Un atteggiamento che, a suo dire, rappresentava «un enorme spreco di tempo e produttività bassa», oltre a procurarle mal di testa e la necessità di alzare costantemente la voce per farsi sentire al telefono.
Il ricorso per «molestie sul lavoro», dovuta alla differenza d’età
In più occasioni, Ritchie aveva chiesto silenzio, ma – come ha spiegato – le sue richieste non sarebbero state rispettate. Si era persino rivolta ai responsabili per ottenere il permesso di lavorare da casa, ma la risposta era stata negativa. Uno dei manager le aveva ricordato che doveva «concentrarsi sul raggiungimento degli obiettivi» senza occuparsi del comportamento altrui. Ritchie si era così decisa a fare ricorso. L’impiegata sosteneva che quel clima rappresentasse una forma di molestia sul posto di lavoro, dovuta alla sua età e alla differenza generazionale con i colleghi.
La decisione del tribunale
Il tribunale di Watford, però, ha rigettato le accuse, ritenendo che i comportamenti dei colleghi – per quanto fastidiosi – non avessero le caratteristiche della discriminazione. «La ricorrente – si legge nella sentenza – prendeva molto seriamente il proprio lavoro e desiderava mantenere un atteggiamento professionale, ma la proiezione di questo standard su tutti coloro con cui lavorava non era ragionevole e generava in lei un senso ingiustificato di indignazione». Secondo i giudici, dunque, la percezione della donna che il comportamento dei colleghi costituisse molestia non era ragionevole. La corte ha quindi escluso qualsiasi violazione delle norme sull’uguaglianza nei luoghi di lavoro.