Morto a 99 anni Michael Smuss, ultimo reduce della rivolta del Ghetto di Varsavia. Così trovò le armi (italiane) per sparare ai nazisti

Si è spento all’età di 99 anni Michael Smuss, considerato l’ultimo sopravvissuto della rivolta del Ghetto di Varsavia, la più celebre azione di resistenza ebraica condotta in Europa contro i rastrellamenti nazisti. Iniziativa eroica, ma infine repressa nel sangue e nel fuoco. «Mi ha salvato Dio, e per una ragione: che potessi raccontare alle persone ciò che è successo», ripeteva Smuss a decenni di distanza ogni volta che lo s’interrogava sul suo miracoloso destino. Nato a Danzica nel 1926, non aveva ancora sette anni quando i nazisti arrivarono al potere in Germania: fu subito cacciato da scuola. Il padre lo educò in casa, e gli insegnò anche il tedesco, ingrediente che si sarebbe poi rivelato fondamentale. A 12 anni la famiglia si trasferì a Lodz, ma un anno dopo (1939) i tedeschi invasero la Polonia. Iniziava la Seconda guerra mondiale, e per gli ebrei polacchi il calvario. Smuss fu trasferito col padre al Ghetto di Varsavia, dove nello spazio di un grande quartiere furono via via ammassati sino a 500mila ebrei. Fame e malattie si diffusero presto, il freddo e le incursioni naziste facevano il resto. Il ragazzino Michael fu destinato a lavorare in un negozio: doveva riparare elmetti di soldati tedeschi caduti. La sua rivolta iniziò lì dentro.
L’insurrezione nel Ghetto di Varsavia e il ruolo di Smuss
Entrato in contatto con la resistenza che andava formandosi nel Ghetto, guidata da Mordechai Anielewicz, Smuss scoprì che la sostanza di cui si serviva ogni giorno per pulire gli elmetti militari poteva essere usata come esplosivo per bombe Molotov. Si mise in gioco pure contribuendo a inviare posta segreta all’esterno, e a far entrare clandestinamente armi. Altre riuscì a procurarle inventandosi uno scambio della disperazione con alcuni soldati italiani. Un gruppetto di questi che era stato sconfitto in battaglia dai britannici in Nordafrica fu «punito» dai tedeschi con la reclusione nel Ghetto di Varsavia. «Ce li portarono così, coi calzoni corti da deserto. Si congelavano le p****e», raccontò poi Smuss. «Noi avevamo pile di vestiti caldi di persone già deportate, e riuscimmo a scambiarli con le loro pistole Beretta». Quelle armi di fortuna servirono al momento del dunque, quando nell’aprile 1943 la resistenza uscì allo scoperto. Quando le squadracce tedesche entrarono nel Ghetto per rastrellare o uccidere chi era rimasto – forse 40mila ebrei – si scatenò la battaglia. I rivoltosi saliti su tetti e balconi spararono e fecero piovere un diluvio di Molotov sui nazisti. I tedeschi dovettero battere in ritirata e rinunciare per giorni all’assedio. Poi adeguarono la strategia e disposero la rappresaglia. Di lì a un mese, diedero fuoco all’intero Ghetto, sino all’ultima casa. Decine di migliaia di persone furono uccise. Chi sopravvisse venne deportato ai campi di sterminio.

I campi di concentramento, la marcia della morte
Smuss stesso fu caricato insieme agli ultimi reduci del Ghetto su un treno diretto a Treblinka, ma un grottesco scontro tra diversi corpi di nazisti salvò a lui e qualche decina d’altri giovani la vita: una squadra dell’esercito chiese e ottenne di averli come forza lavoro per la macchina da guerra. Furono destinati al campo di concentramento di Budzyń, da dove ogni mattina venivano portati a lavorare in una fabbrica di aerei nei dintorni dell’aeroporto di Varsavia. Nel 1944 fu poi trasferito in un altro campo di concentramento, Flossenbürg, assegnato al lavoro in un’altra fabbrica. «Ero giovane, e non ero pronto a morire. Avrei fatto di tutto», raccontava Smuss nelle sue frequenti testimonianze. Resistette fino alla fine della guerra, nell’aprile 1945. Con la Germania sull’orlo del collasso, le guardie del campo evacuarono i prigionieri. Li caricarono ancora una volta su un treno, dicendo loro che sarebbero stati liberati. La destinazione invece era il campo di Dachau, dove li aspettava il crematorio. Ma ancora una volta il destino cambiò. Il convoglio fu accidentalmente bombardato dagli americani. 133 ebrei a bordo morirono. Smuss si salvò, e fu riportato a Flossenbürg. Qui i nazisti tentarono un’ultima carta omicida con il manipolo di sopravvissuti: li fecero marciare per sei giorni verso Dachau, senz’acqua né cibo. Smuss e due compagni di sventura resistettero, bevendo di sottecchi acqua piovana, finché i soldati tedeschi non si dileguarono. Ripararono in una casupola, qualcuno diede loro da bere del latte. Finirono in ospedale, ormai sotto la supervisione degli Alleati, e si salvarono.

La pittura, le testimonianze, i riconoscimenti
Dopo la guerra Smuss partì per gli Stati Uniti, dove iniziò una nuova vita. Nel 1979 si trasferì in Israele. Si sposò due volte, ebbe figli e nipoti. E divenne pittore, anche per rielaborare attraverso l’arte una giovinezza drammatica. Sono diventati poi famose le sue tele intitolate “Riflessioni di un Sopravvissuto”. «Da lì in poi, Michael ha iniziato a processare artisticamente le sue esperienze, e ad andare nelle scuole in Germania per raccontare ai discendenti dei suoi aguzzini l’inimmaginabile», ha raccontato Paul Diedrich, un parente tedesco, ai media americani. Lo stesso Smuss fece per anni pure con gli studenti polacchi, oltre che con quelli del suo stesso nuovo Paese. Anche per questa incessante tesimonianza, una manciata di settimane prima della morte, aveva ricevuto l’ultima onorificenza, forse la più commovente: l’Ordine al Merito della Germania, consegnatagli personalmente a casa dall’ambasciatore tedesco in Israele Steffen Rüdiger Seibert. «Nonostante tutto, aveva sempre un inconfondibile senso dell’umorismo. Ha continuato a ridere e sorridere con me fino a 99 anni», ha raccontato Diedrich.
Foto di copertina: Soldati delle SS entrano nel Ghetto di Varsavia dopo la rivolta dell’aprile 1943
