Omicidio di Piersanti Mattarella, ai domiciliari per depistaggio l’ex prefetto Piritore: «Fece sparire i guanti dei killer, istituzioni inquinarono le indagini»

Dopo anni di silenzi e depistaggi, il caso dell’omicidio di Piersanti Mattarella potrebbe trovarsi di fronte a una svolta decisiva. È stato arrestato e posto ai domiciliari Filippo Piritore, ex prefetto e funzionario della squadra mobile di Palermo. A notificare il decreto di misura cautelare la Direzione investigativa antimafia. Secondo la procura del capoluogo siciliano, Piritore avrebbe «reso dichiarazioni rivelatesi del tutto prive di riscontro» rispondendo ad alcune domande riguardo al guanto trovato a bordo della Fiat 127 usata dai killer per recarsi sul luogo dell’omicidio dell’allora governatore della Sicilia, avvenuto il 6 gennaio 1980. Le parole dell’ex prefetto si sarebbero inserite in una più ampia rete di depistaggi portata avanti «da appartenenti alle istituzioni» e in cui spunterebbe il nome di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde già condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
L’inganno di Piritore e l’inquinamento delle indagini
Sentito dai pm, Piritore avrebbe mentito raccontando di diversi passaggi di mano del guanto di pelle, passaggi che non sarebbero però avvenuti come lui ha raccontato. Dichiarazioni che, nell’ipotesi degli inquirenti, avrebbero «contribuito a sviare le indagini funzionali (anche) al rinvenimento del guanto (mai ritrovato)». Stando a quanto scrivono i pm della Dda di Palermo, «le indagini sull’omicidio dell’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella furono gravemente inquinate e compromesse dai appartenenti alle istituzioni che, all’evidente fine di impedire l’identificazione degli autori del delitto, sottrassero dal compendio probatorio un importantissimo reperto, facendone disperdere definitivamente le tracce».
La testimonianza falsa di Piritore e i presunti passaggi di mano
Secondo la Dia il guanto costituisce un tassello fondamentale per risalire agli esecutori materiali e ai mandanti dell’omicidio, ritenuto di «specifico interesse pubblico». Quel reperto, perso per errore da uno dei killer nell’auto abbandonata dopo la fuga, è però scomparso. I pm nel settembre 2024 hanno sentito Filippo Piritore, ormai in pensione, che avrebbe raccontato loro – mentendo, almeno secondo gli investigatori – di aver affidato il guanto all’agente della Scientifica Di Natale, che a sua volta avrebbe dovuto consegnarlo al sostituto procuratore Pietro Grasso. Quest’ultimo, secondo Piritore, avrebbe poi ordinato di far riavere il reperto al Gabinetto regionale di Polizia scientifica e Piritore. A quel punto, lo avrebbe consegnato, con relativa attestazione, a un altro agente della Polizia scientifica di Palermo, Lauricella, per lo svolgimento degli accertamenti tecnici.
I punti deboli del racconto e l’agente inesistente
Sempre lo stesso Piritore, ha raccontato che la Squadra mobile era in possesso di una annotazione in cui la consegna del guanto alla Scientifica risultava compiuta. Una storia ritenuta altamente inverosimile e illogica dagli inquirenti, secondo cui una prova potenzialmente decisiva – tanto da arrivare alle orecchie dell’allora ministro dell’Interno Rognoni – sarebbe stata oggetto di un ping pong tra i vari uffici per giorni. Il racconto di Piritore, inoltre, è stato già smentito dalle testimonianze dell’ex pm Piero Grasso e dell’agente Di Natale, che hanno negato di aver mai ricevuto il reperto né di aver ricevuto qualunque tipo di notizia o informazione a riguardo. Di Natale in particolare ha spiegato che: «Essendo un dattiloscopista, non uscivo mai dal laboratorio. È anomala la consegna diretta a uno di noi». Inoltre, tra gli agenti in forze in quell’anno alla Scientifica non risulta nessun Lauricella.
Il ruolo di Piritore nella sparizione del guanto
«Filippo Piritore, consegnatario del guanto sin dal momento del suo ritrovamento, pose in essere un’attività che ne fece disperdere ogni traccia», scrivono i pm. E ci sarebbe riuscito anche grazie a un sistema quasi perfetto di menzogne. Da una parte, l’ex sostituto Grasso di fronte a un verbale di restituzione delle cose ritrovate e in assenza di qualunque verbale di sequestro del guanto, mai avrebbe sollevato domande riguardo al guanto. Dall’altra, la Scientifica e la polizia giudiziaria non sarebbero stati mai nella posizione di «contestare la direttiva del titolare delle indagini di tenere presso di sé quel bene». Secondo i pm, infatti, l’ex prefetto si fece consegnare il guanto dalla Scientifica «sottraendolo al regolare repertamento e contrariamente a ciò che di norma avveniva in tali circostanze».
Chi è Bruno Contrada e il suo ruolo nel depistaggio
Nell’inchiesta, portata avanti dal procuratore antimafia Maurizio De Lucia e i sostituti Antonio Charchietti e Francesca Dessì, spunta anche il nome di Bruno Contrada. Napoletano ed ex numero due dei Servizi per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde), all’epoca dell’omicidio Mattarella era capo della squadra mobile di Palermo e della Criminalpol. Come ha accertato una sentenza, passata in giudicato nel 2007, già nel 1980 Contrada intratteneva rapporti con la Cupola di Cosa nostra, in particolare Totò Riina e Michele Greco. Secondo i pm, questo legame con la mafia siciliana sarebbe stato vivo anche nelle settimane in cui l’ex agente dei Servizi stava indagando sull’omicidio. Non solo. Gli inquirenti ritengono che Contrada fosse presente sul luogo del delitto quello stesso 6 gennaio 1980 e che fu lui, con l’aiuto di un ufficiale dei carabinieri e dell’allora pm Piero Grasso, a raccogliere informazioni dalla vedova di Mattarella, Irma Chiazzese, e dal figlio Bernardo. Riguardo al suo coinvolgimento nella vicenda del guanto, è stato proprio Piritore a fare il nome di Contrada: «Avvisai subito il dirigente della Mobile, nella persona di Contrada, che evidentemente mi disse di avvisare il dottor Grasso e di mandare i reperti alla Scientifica». Secondo i magistrati, Contrada e Piritore erano amici e si frequentavano anche oltre il lavoro.
Le vicende giudiziarie di Bruno Contrada e la sua condanna
Il nome di Bruno Contrada è stato associato a più riprese alla strage di via D’Amelio, in cui Paolo Borsellino perse la vita il 19 luglio 1992. Arrestato nel dicembre di quello stesso anno grazie alla testimonianza di importanti pentiti di mafia – su tutti Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo – fu prima assolto, poi condannato in via definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo Mutolo, il nesso che aveva consentito in un primo momento a Contrada di entrare in contatto con i vertici di Cosa nostra sarebbe stato Stefano Bontate, della cosca di Santa Maria di Gesù. Da lui, però, i contatti si sarebbero poi allargati agli altri boss mafiosi, Totò Riina su tutti.
Le sentenze contro i mandanti e le indagini (in corso) sui misteriosi killer
Per l’omicidio di Piersanti Mattarella sono stati condannati con sentenza definitiva i componenti della commissione provinciale (la cosiddetta Cupola) di Cosa nostra: Salvatore Riina, Michele Greco e Francesco Madonia. Vennero invece assolti gli ex Nar Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, accusati di essere gli esecutori materiali del delitto. Solo di recente i pm hanno iscritto nel registro degli indagati in qualità di esecutori i boss Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, e stanno portando avanti un incidente probatorio su tutte le impronte ritrovate sulla Fiat 127. Il movente dietro all’assassinio, secondo la Corte d’Assise, sarebbe stato la «politica di rinnovamento» impostata dall’ex governatore della Sicilia, che per primo sfruttò i suoi ampi poteri di presidente regionale «esercitandoli anche nei confronti del Comune di Palermo». Il riferimento è agli affari malavitosi negli appalti, uno dei fulcri degli introiti di Cosa nostra, e alla dura resistenza che lo stesso Mattarella oppose al rientro con incarichi elettivi nella Democrazia cristiana dell’ex sindaco palermitano Vito Ciancimino, che anni dopo venne condannato in quanto affiliato di Cosa nostra e fidato collaboratore di Totò Riina.
