La Germania ha truccato i conti per investire «senza limiti» in difesa? L’accusa del think-tank fondato da Monti: «L’Ue doveva fermarla»

C’è qualcosa che non torna nei conti della Germania – o meglio, nelle sue previsioni contabili. E c’è qualcosa di altrettanto rilevante che non conta nel modo in cui la Commissione europea le ha prese in esame com’è suo compito. È quanto sostiene Bruegel, uno dei più quotati think-tank che si occupano di questioni economiche europee, in un paper pubblicato nei giorni scorsi e che sta facendo discutere istituzioni ed esperti. L’articolo, firmato dal direttore dell’istituto Jeromin Zettelmeyer insieme con altri due economisti, Zsolt Darvas e Lennard Welslau, punta il dito al contempo – in modi diversi – contro due attori considerati di norma poco meno che inattaccabili in materia di politica economica: la Germania e la Commissione europea. La prima, in sostanza, avrebbe presentato la scorsa estate delle proiezioni di crescita pluriennale semplicemente inverosimili. La seconda, che a norma di Trattati Ue è chiamata a monitorare la solidità dei piani economici nazionali, non se ne sarebbe accorta, o avrebbe chiuso un benevolo occhio. La beffa della storia? Che tanto la Germania quanto la Commissione – sostengono gli esperti dell’istituto di ricerca fondato 20 anni fa da Mario Monti – hanno commesso le rispettive acrobazie contabili per non uscire dalla «gabbia» di regole che hanno appena contribuito a costruire, quella del nuovo Patto di Stabilità. Col risultato però che è proprio questo a uscirne malconcio.
I conti che non tornano
Ad attrarre l’attenzione degli studiosi di Bruegel è stato il piano fiscale strutturale di medio termine presentato in estate dal governo di Friedrich Merz: il documento che delinea previsioni e obiettivi di politica economica di ciascun Paese Ue per il quadriennio 2025-29. Passino i tempi – la Germania lo ha inviato buona ultima alla Commissione, il 16 luglio del 2025 stesso, complice le elezioni anticipate di febbraio e poi il macchinoso percorso che ha portato alla formazione del governo Cdu-Spd. Il problema di fondo, sostengono Zettelmeyer e colleghi, è che l’architettura di bilancio presentata da Berlino non sta in piedi. Da un lato cerca di ritagliare lo spazio necessario a iniettare nella claudicante economia del Paese i 500 miliardi di euro di investimenti previsti dal maxi-piano varato a giugno: risorse utili in buona parte a dare la scossa all’industria della difesa, dopo la modifica costituzionale approvata in primavera per spendere «senza limiti» in quel settore. Dall’altro promette di invertire la rotta dei conti persino più in fretta di quanto indicato dalla stessa Commissione, riemergendo dal «profondo rosso» del 2026 (-1,8% di deficit sul Pil) a un +0,8% di attivo nel 2030. Possibile, si sono chiesti all’istituto nominato come il più celebre dei pittori fiamminghi? No. Con scenari e modelli matematici i tre economisti dimostrano come quell’acrobazia sia resa possibile da un trucco – in buona o cattiva fede che sia: i tecnici di Berlino spingono al rialzo il Pil nelle previsioni pluriennali sostenendo che l’inflazione resterà sempre alta, ad almeno il 2,5%, per lunghi anni. Scenario complicatissimo da difendere considerato che il piano di stimolo pubblico verrà ritirato dopo il 2026.
Trattamento di favore?
Furbata tedesca, quindi? Sì e no. Perché, notano gli esperti di Bruegel, così fan tutti o quasi i Paesi membri pur di rispettare la doppia ricetta di crescita e solidità fiscale che si sono auto-prescritti. «La Germania non è il solo Paese a usare ipotesi di Pil nominale ottimistiche per ammorbidire le esigenze di aggiustamento fiscale legate al raggiungimento dei requisiti di riduzione del debito Ue». Il problema a quel punto riguarda se mai il “medico” chiamato ad assicurare il rispetto del “piano diagnostico”: fuor di metafora, la Commissione Ue. Possibile che i tecnici di Bruxelles nella valutazione del piano tedesco restituita a settembre non abbiano rilevato le incongruenze contabili, approvando invece in toto il corpus di previsioni? Bruegel fa polemica tecnica, ma sul punto va giù duro e la conclusione finisce per avere un sapore politico. «La Commissione ha fallito nel condurre l’attento esame richiesto dalle regole sulle ipotesi alla base del piano di crescita della spesa proposto dalla Germania», e in tal modo quello che fornisce «appare come un trattamento speciale della Germania». Che stupisce fino a un certo punto, è la velenosa nota a margine, se si considera che la Commissione «aveva segnalato che avrebbe accomodato i piani di spesa per investimenti e difesa ancor prima che la Germania inviasse» il documento pluriennale.
Errore di sistema
Per ora se non altro tra i 27 Paesi membri nessuno sembra essersi accorto o lamentato del trattamento bonario riservato dalla Commissione alla Germania, nota Bruegel. Forse perché paradossalmente tutti giocano in realtà una partita in cui non credono fino in fondo. E trovano quindi all’occasione – o si tengono aperta l’opzione di farlo – gli escamotage per tenere insieme capra e cavoli, cioè corposi investimenti (in primis per il salto di qualità nella difesa considerato prioritario) e rigidi paletti di sostenibilità fiscale. E se si ripensasse allora il sistema stesso, ossia il rinnovato Patto di Stabilità, propongono Zittelmeyer e colleghi? Le idee e opzioni non mancano. La volontà politica, quella chissà.
