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Quegli uomini che non vogliono uccidere (o picchiare) le donne: dentro un Centro per uomini autori e potenziali autori di violenza di genere: «Mi sono riconosciuto in un film» – Il video

25 Novembre 2025 - 10:00 Alessandra Mancini
Siamo entrati in un Cuav, un centro dedicato ai percorsi di recupero per uomini che hanno commesso o rischiano di commettere violenza conto le donne. I professionisti spiegano a Open che l’obiettivo è aiutarli a riconoscere i propri comportamenti violenti, capirne le conseguenze e imparare ad assumersene la responsabilità, così da non ripeterli

«Mi sono riconosciuto, Ivano…sono io», dice con una semplicità disarmante. Ivano, il protagonista violento di C’è ancora domani, film diretto da Paola Cortellesi, era nato per abitare lo schermo. Lui no. Lui, lo spettatore, quella violenza l’aveva agita nella realtà, dentro casa, contro sua moglie. Dopo aver visto la pellicola e pronunciato quelle parole ad alta voce, ha riconosciuto per la prima volta di essere un uomo violento. Lo ha fatto davanti ad altri undici uomini, con un’eta compresa tra i 18 e i 75 anni, gran parte padri. Seduti in cerchio, uno di fronte all’altro, stanno lavorando sul riconoscimento, la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere.

Alcuni di loro l’hanno già esercitata, altri si sono fermati poco prima. Tutti frequentano il Centro per uomini autori di violenza (Cuav) Andrea di Milano. Insieme a loro, in mezzo al cerchio, ci sono due professionisti, un uomo e una donna, che guidano la conversazione. «Il nostro obiettivo è aiutare chi esercita violenza a riconoscerla, comprenderne gli effetti e assumersi la responsabilità delle proprie azioni, arrivando a non agirla più nelle relazioni», spiega a Open Maria Rosaria Rapolla, psichiatra e psicoterapeuta che co-conduce questi gruppi del Cuav.

«Allo stesso tempo – prosegue – è essenziale far emergere la violenza assistita, perché spesso i figli ne sono coinvolti e la violenza viene negata. L’obiettivo è che i partecipanti riconoscano anche i danni che ne derivano e sviluppino il rifiuto di qualsiasi forma di abuso».

Che cos’è un Cuav? 

I Cuav (Centri per uomini autori o potenziali autori di violenza di genere) sono strutture specializzate che offrono percorsi di recupero per uomini che hanno agito o rischiano di agire violenza contro le donne, con l’obiettivo – in accordo con la Convenzione di Istanbul – di interrompere la violenza e prevenire la recidiva attraverso la responsabilizzazione e il cambiamento dei loro comportamenti aggressivi.

L’intervento deve inoltre essere ispirato dall’obiettivo di garantire la sicurezza delle vittime, pertanto la Convezione dispone che siano realizzati in stretto coordinamento con gli altri servizi specializzati attivi nel contrasto della violenza di genere, come i centri anti-violenza. In Italia, secondo un’indagine del progetto ViVa del 2023, esistono 94 Cuav. Ma solo a partire dal 2022, grazie all’Intesa Stato-Regioni, sono stati riconosciuti come servizi istituzionali, finanziati dalle regioni e dal dipartimento per le Pari Opportunità a livello nazionale. 

Come e chi accede? 

Esistono diverse modalità per accedere al percorso. «Alcuni uomini arrivano su indicazione dell’avvocato o del giudice: in questi casi si tratta di persone già denunciate per reati legati alla violenza di genere – sottolinea la psichiatra Rapolla -. Altri vengono inviati dai servizi sociali, dai servizi di tutela minori o per seguire percorsi preventivi. Inoltre, ci sono gli accessi spontanei: uomini che chiedono aiuto perché riconoscono un aumento della propria aggressività nelle relazioni».

Tra questi ultimi, c’è chi si rivolge al Cuav «prima di compiere atti di violenza fisica, riconoscendo i segnali di un’escalation verbale o psicologica – prosegue la professionista -. C’è chi arriva dopo un episodio di violenza, consapevoli del rischio che si possa ripetere. Altri, infine, raccontano di aver temuto di poter arrivare a uccidere la propria partner se non si fossero fermati in tempo».

Il programma prevede un minimo di 60 ore di attività, distribuite su un periodo non inferiore a un anno. «Abbiamo anche molti uomini che hanno deciso di fermarsi di più, sia tra quelli che si sono rivolti spontaneamente, sia tra coloro che sono arrivati con un procedimento in corso. Alcuni, dopo aver concluso il percorso, hanno comunque scelto di proseguire per due o tre anni». Nel 2024, al Cuav Andrea di Milano, «si sono registrati circa sessanta accessi», riferisce la Fondazione Somaschi, che gestisce il Cuav.

Il gruppo aperto, il confronto tra pari

Il trattamento vero e proprio è di tipo gruppale. Ma prima di essere inserito all’interno del cerchio co-condotto da una psichiatra e uno psicoterapeuta, gli operatori effettuano colloqui individuali per valutare la motivazione della richiesta, il livello di rischio e raccogliere la storia personale. All’ingresso c’è però una sorta di “patto di intenti”: chi partecipa deve riconoscere di aver agito violenza e comprendere la necessità di intraprendere il percorso.

«Un riconoscimento parziale è un prerequisito fondamentale. Tuttavia, all’inizio del percorso – precisa la psichiatra -, è frequente sentire gli uomini ammettere di aver agito spostando la responsabilità sulla partner. Spesso dicono: “Sì, ho agito, ma sei stata tu a spingermi, con i tuoi comportamenti”. Un’altra dinamica frequente è la minimizzazione della violenza stessa. Alla base di tutto – prosegue la dottoressa – c’è lo stereotipo di genere: l’idea che l’uomo abbia il diritto di comandare, di fare determinate cose, mentre la donna non può». 

Al termine degli incontri individuali, se ritenuti idonei, si accede al gruppo. Che è aperto. Chi entra, sia chi ha già agito violenza sia chi è un potenziale autore, lo fa in un momento qualsiasi del percorso, ma la circolarità degli argomenti garantisce che i partecipanti possano affrontare tutti i temi: dal riconoscimento della violenza e delle sue diverse manifestazioni agli effetti che essa ha sulla donna e sui figli.

Si lavora anche sulla capacità di comprendere l’altra, mettendosi nei panni della donna per riconoscere le emozioni di chi subisce violenza, con l’obiettivo di arrivare al rifiuto totale di tali comportamenti. «La forza del gruppo sta nel confronto tra pari – spiega Rapolla -. Chi è più avanzato nel percorso può condividere la propria esperienza e testimoniare il cambiamento, dimostrando che è possibile interrompere il ciclo della violenza». 

L’esercizio dello specchio 

Il gruppo offre, infatti, un rimando non solo dai conduttori, che all’inizio possono sembrare una sorta di “nemico”, soprattutto per chi è nuovo, ma anche da uomini che si trovano in momenti diversi del percorso. «Questi uomini possono dire a chi è appena arrivato: “Guarda che io ho riconosciuto la violenza”, “Quello che stai dicendo non è corretto” o ancora “Anch’io vedevo le cose come te, ma adesso ho capito che non è giusto”. La forza del cerchio – prosegue la professionista – sta proprio in questo tipo di rimando: chi è più avanti nel percorso può testimoniare il cambiamento».

La condivisione ha un impatto molto potente: «Sentire da qualcuno che ha preso consapevolezza di ciò che ha fatto e sta lavorando per cambiare, oppure dire: “Mi è successa una situazione qualche giorno fa, prima avrei reagito in un certo modo, ma ora ho reagito diversamente”, e magari questa persona è nel percorso da due o tre anni, ha un impatto notevole».

La consapevolezza di sé, il mettersi nei panni dell’altra

Un punto di partenza cruciale nel percorso è la consapevolezza di sé e delle proprie emozioni. «Spesso, gli uomini che agiscono violenza non riescono a identificare le emozioni che precedono l’agito violento. Molti di loro chiamano tutto “rabbia”, ma la rabbia ha delle cause profonde. È essenziale che riconoscano queste emozioni, che capiscano da dove derivano e che comprendano che esiste sempre una scelta alternativa rispetto all’azione violenta. Il vero potere non è quello che l’uomo esercita sulla donna, ma il potere che ha su se stesso: il potere di scegliere come reagire, di gestire le proprie emozioni in modo consapevole», dichiara Tommaso Vitale, psicoterapeuta del Cuav, che co-conduce i gruppi con la dottoressa Rapolla.

Mettersi nei panni dell’altro è un altro elemento chiave. «Comprendere davvero cosa significa essere vittima di violenza, non solo per la donna, ma anche per i figli che assistono a questi comportamenti, è fondamentale. Molti uomini minimizzano l’impatto della violenza, non solo sul corpo della donna, ma anche sulle sue emozioni e sulla vita dei bambini – precisa -. La violenza psicologica, verbale, e anche quella emotiva, sono spesso sottovalutate». 

Gli effetti della violenza sui figli

Il percorso di consapevolezza aiuta anche a comprendere le dinamiche famigliari, ad esempio come violenza, modalità relazionali sbagliate e uno stile di mascolinità tossici potrebbero essere trasmessi ai propri figli. «Un esempio che mi viene in mente è quello di un uomo del gruppo che, all’inizio, descriveva come le sue figlie piccole fossero diffidenti nei suoi confronti perché pensava fosse la madre ad allontanarle – racconta la psichiatra -. Con il tempo, però, ha iniziato a riconoscere che in realtà erano spaventate da lui. Non solo a causa di comportamenti fisici, ma anche per la violenza emotiva, come quando alzava la voce. Lavorando sul riconoscimento della paura e delle emozioni, ha compreso che lui stesso, da bambino, aveva provato la stessa angoscia quando suo padre urlava in casa». 

Non tutte le persone che agiscono violenza hanno necessariamente subito o assistito a comportamenti maltrattanti all’interno del contesto familiare. «Chi agisce violenza parte spesso da uno stereotipo, dall’idea che “Io ti posso correggere”, che la donna debba stare in un certo ruolo, in un certo posto, che si “meriti” determinate cose e che non debba uscire da determinati schemi. E se, oltre alla cultura patriarcale, una persona ha interiorizzato in famiglia un’idea rigida del maschile e del femminile, allora bisogna metterla in discussione per poter compiere scelte diverse. Non è una giustificazione – sottolinea la psichiatra -, ma è un fattore che aumenta il rischio di violenza». 

Un altro esercizio proposto dai co-conduttori consisteva nello scrivere due lettere, prima ai padri e poi alle madri, su un tema libero. Dagli scritti è emerso molto, soprattutto riguardo alla figura femminile: «L’aspettativa che la madre fosse quella che “non si lamenta mai”, che sopporta tutto, un modello messo in discussione all’interno del gruppo perché spesso idealizzato e poi proiettato sulla partner, con aspettative irrealistiche che possono sfociare in svalutazione o violenza quando non vengono soddisfatte», dichiara Rapolla.

«Rispetto ai padri – prosegue invece Vitale -, in alcune lettere è emerso invece il ricordo della loro aggressività. Mi aveva colpito anche come quasi tutti gli uomini aprissero la lettera alla madre con “scusa mamma per l’uomo che sono diventato”, mentre nessuno chiedeva scusa al padre. Anche questo dice molto su come varino le aspettative genitoriali in base al genere: si sente di aver deluso la madre, ma non il padre. È come se nei confronti del padre l’agire violenza non fosse una delusione, come se fosse qualcosa di “accettabile”». Stereotipi di genere, molto radicati, restano presenti nell’immaginario della maggior parte degli uomini del gruppo. 

Il lavoro di prevenzione

I Cuav portano avanti anche attività di prevenzione, sensibilizzazione e formazione al di fuori dei centri, rivolte alla comunità attraverso incontri sul territorio e nelle scuole. «In questo periodo – spiega Vitale – stiamo seguendo tre gruppi dedicati ai padri, quindi composti esclusivamente da uomini. Affrontiamo temi come gli stereotipi di genere, i modelli relazionali, il riconoscimento delle emozioni e i modelli genitoriali, per esempio il classico “non voglio essere come mio padre”. È un lavoro in cui crediamo moltissimo, perché riteniamo che il cambiamento debba partire dalle radici. Il messaggio che ripetiamo sempre, sia agli adulti sia ai minori, è l’importanza di diventare agenti attivi: se inizi a metterti in discussione, puoi cominciare a fare qualcosa di diverso». 

E i risultati, racconta, sono incoraggianti: «Un ragazzo poco più che ventenne ci ha detto che, il giorno dopo un incontro, è andato dal suo datore di lavoro per dirgli che una battuta omofoba non era accettabile. Nelle scuole medie stiamo avviando diversi progetti: sono ragazzi molto giovani, ma arrivano a riflessioni profonde. Per esempio, trovano normale che una compagna giochi a calcio, ma non accettano altrettanto facilmente che un amico faccia danza. E sono loro stessi a riconoscere che è uno stereotipo. È un lavoro parallelo rispetto al gruppo trattamentale, ma strettamente collegato, perché l’obiettivo è lo stesso: far partire il cambiamento culturale», conclude Vitale.

Il lavoro di prevenzione e di consapevolezza sull’agire violento è fondamentale perché la violenza contro le donne non è episodica, ma sistemica. È radicata nella nostra cultura patriarcale, che occorre riconoscere e modificare. Vive e si alimenta di stereotipi e di squilibri di potere nelle relazioni. Non nasce da un raptus, non è amore malato. Svaluta, umilia, cancella e uccide. La violenza ha molte forme: psicologica, fisica, sessuale, economica. Può diventare persecuzione, può portare al femminicidio. Ma è un fenomeno ancora in gran parte sommerso. Manca infatti consapevolezza, soprattutto tra gli uomini. Ed è da loro che ci si aspetta il cambiamento.

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