Perché non conviene che scuola e lavoro siano distanti

Scuola e lavoro in Italia continuano a essere due mondi distanti. Le ragioni culturali e i dati che mostrano cosa potremmo guadagnare da una maggior integrazione

Studiare e lavorare sono due attività che potrebbero sembrare distanti. La tradizionale suddivisione tra teoria e pratica che vede la prima come un esercizio della mente e la seconda come l'azione concreta dell'uomo le ha sempre immaginate così. E il mondo del lavoro è sempre stato considerato come il mondo dell'azione, al massimo si distingueva tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ma, anche in questo caso, l'utilizzo del cervello era funzionale auno scopo pratico, non era un processo di apprendimento. Ma la distanza tra i due mondi non è stata solo sancita da questa convinzione culturale. Le dinamiche economiche e sociali del Novecento hanno influito molto contribuendo a dipingere, complici le condizioni di lavoro di molte fabbriche, il lavoro come causa di alienazione, sfruttamento e, più in generale, come un sacrificio necessario per la sopravvivenza. Qualcosa da tener il più possibile distante delle giovani generazioni. Se poi aggiungiamo il basso livello di competenze richiesto dalla maggior parte dei lavori di un tempo capiamo perché lo studio e l'apprendimento non trovavano nessun punto di incontro con il mondo del lavoro.


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Tutte queste condizioni sono oggi profondamente cambiate, ma l'idea di scuola e lavoro come due mondi distanti rimane. Lo si vede dalla scarsa diffusione di strumenti come l'apprendistato di primo livello e dagli attacchi che l'alternanza scuola lavoro ha ricevuto fino ad essere profondamente ridimensionata dopo la nuova Legge di bilancio. Attacchi che quasi mai si sono rivolti a singole situazioni ma che colpivano al cuore il principio dell'integrazione tra scuola e lavoro. Lo slogan "siamo studenti non siamo operai" è particolarmente indicativo.

Ma quello che ci dicono tutte le statistiche a disposizione va invece nella direzione opposta. I paesi europei con il minor livello di disoccupazione giovanile e il minor numero di NEET sono proprio quelli in cui sono più diffusi i sistemi di formazione duale, quelli nei quali si lavora e si studia allo stesso tempo. O meglio ancora, quelli in cui si impara lavorando. Negli stessi paesi i tassi di occupazione sia dei laureati che dei diplomati sono i più elevati d'Europa.

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I motivi sono tanti e ampiamente studiati. Il più ricordato riguarda la velocità con cui sta cambiando il mondo dell'impresa e del lavoro ormai dagli anni Ottanta. Questo fa sì che la scuola, anche la migliore, non riesca a stare al passo e così consegna al mercato del lavoro ragazzi e ragazze con competenze spesso poco spendibili. A questo però dobbiamo aggiungere un motivo più importante, che tocca proprio il livello culturale. Si parla sempre di più di competenze trasversali, le famose soft skills. Non c'è responsabile delle risorse umane che negli ultimi anni non sia stato istruito per cercare queste competenze che riguardano poco gli aspetti tecnici ma soprattutto quelli legati alle capacità individuali, le attitudini e i comportamenti. Davanti alla tecnologia che avanza e che è in grado di svolgere sempre più compiti tecnici per i quali prima era indispensabile l'uomo ci sono alcuni aspetti dell'essere umano ancora non rimpiazzabili. E queste soft skills non si imparano su un banco di scuola, tranne nei pochi casi in cui si sperimentano nuove modalità didattiche. Si imparano nell'esperienza e nell'azione, si imparano quindi lavorando.

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Per questo investire negli strumenti che permettono l'incontro tra scuola e lavoro non è un aiuto alle imprese, è un aiuto ai giovani. Non significa mettere le istituzioni formative a servizio delle esigenze del mondo produttivo. Significa promuovere una formazione completa dei giovani che nasca dalle nozioni così come dalla pratica, per tutelarli dai cambiamenti e, meglio ancora, per governarli. Le norme possono essere migliorate, ma ci sono. La sfida è tutta delle imprese e della scuola, insieme.