Massacro di Jonestown, il figlio di Jim Jones racconta cosa fu la setta del «Tempio del Popolo»

Sono passati quarant’anni da quello che viene considerato il più grande suicidio di massa della storia moderna. Ad «Haaretz», Stephan Jones, figlio del predicatore Jim che ordinò a più di 900 persone  di uccidersi, racconta che cos’è stata Jonestown e quale lezione se ne può trarre

Quarant’anni fa, il 18 novembre del 1978, avvenne il più grande suicidio di massa che la storia moderna ricordi. Quel giorno, 913 persone che facevano parte del cosiddetto Tempio del popolo – un sorta di setta che si era sviluppata in Guyana e che ruotava attorno al culto per il predicatore statunitense Jim Jones, fondatore della cosiddetta Jonestown – accettarono di dare seguito a una strana richiesta del santone.


Jones quel 18 novembre del 1978 chiamò a raccolta i membri della comunità del Tempio del Popolo con un altoparlante e annunciò che era giunto il momento di commettere il “suicidio rivoluzionario”. Dopo un lunghissimo discorso, Jones fece portare un grosso bidone contenente succo di frutta, cianuro di potassio, Valium, idrato di cloralio e cloruro di potassio e ordinò agli adepti di berne un bicchiere, imponendo alle madri di portare il preparato ai propri figli.


Fu a quel punto che gli adepti iniziarono a sentirsi male e ad accusare gli effetti dell’avvelenamento che li avrebbe portati alla morte. In quegli istanti, Jones – si racconta – spiegò che morire è come «un po’ di riposo» e invitò tutti a «morire con dignità», soprattutto le persone che stavano mostrando paura e i bambini che si stavano rifiutando di bere il preparato.

L’avvelenamento si consumò nel giro di pochi minuti e gli adepti videro morire i propri compagni di avventura tra convulsioni e dolori lancinanti. Jim Jones non morì avvelenato, ma si suicidò sparandosi un colpo di pistola alla testa. In totale, quel 18 novembre del 1978, morirono 913 persone e tuttora il massacro di Jonestown viene ricordato come il più grande suicidio collettivo della storia.

A 40 anni di distanza dal massacro di Jonestown, l’interesse verso la storia del culto del Tempio dei Popoli sembra essersi ravvivato e Stephan Jones, figlio del predicatore che provocò la morte di quasi un migliaio di persone, ha concesso un’intervista esclusiva al quotidiano israeliano Haaretz raccontando la storia della setta e i propri ricordi.

«La gente non capisce perché mio padre fosse attraente. I media lo hanno demonizzato, hanno detto che era un folle per tutto questo tempo. Non sto cercando di difenderlo. Spero solo che la gente possa capire, quindi identificarsi e lasciarsi andare alla storia, capire come e perché può accadere una cosa del genere», spiega Stephan.

«Spesso le persone pensano che mio padre fosse cattivo. Penso che tutti sappiano che nei suoi ultimi giorni lo è stato certamente, ma ci sono persone che mi contattano solo per dirmi che hanno trovato qualcosa che ho scritto su di lui e che grazie a ciò sono in grado, attraverso me, di comprendere ciò che è stato. Mio padre era malato da quando era molto giovane e ha usato la paura per controllarmi.

I tuoi sentimenti verso tuo padre e il suo ruolo nella tua vita si sono evoluti nel corso degli anni?

«Oh sì, penso che si veda dai miei scritti. Ed era necessario, per la mia stessa guarigione, che io trovassi accettazione per lui, comprensione per lui. Avevo buone ragioni per essere infuriato con lui – ero infuriato da molto prima che morisse, e apertamente. Ma molta della rabbia che ho provato per anni mi ha impedito di guardare la mia parte e di vedere cosa vorrei poter fare in circostanze simili. Cerco di non parlare di ciò che avrei potuto fare perché non vedo alcun valore in questo».

«I primi attacchi alla città, pensavo fossero reali. Pensavo che ci fossero delle ragioni per cui quelle persone volessero prenderci. Ero stato martellato per anni con il messaggio della minaccia esterna e sin da piccolo mio padre parlava di persone che volevano bombardarci. Ci siamo sentiti in pericolo per la maggior parte del tempo. Ho trovato sollievo nei boschi, nei fiumi e nelle insenature, e sono scappato più spesso che potevo, ma c’era sempre un’ansia che ora posso solo identificare», racconta.

Come spiega il rinnovato interesse per il Tempio del Popolo?

«Penso che ci siano persone che sono interessate a causa di ciò che sta succedendo nel mondo. Il motivo per cui ho accettato di parlare con tutte le persone che vogliono sapere è proprio questo. Evito di puntare il dito e di fare nomi specifici. Preferirei solo parlare di ciò che non ha funzionato e sperare che le persone possano visualizzarlo nelle loro vite. Ed è per questo che è così importante che le persone siano diffidenti nei confronti di qualsiasi leader considerato superiore alle persone. E francamente, sono molto più fiducioso del leader riluttante, di uno che dice “Andiamo” e non “Vai”».

Qual è la lezione più grande di Jonestown?

«Siate consapevoli di questo messaggio, che era prevalente nel tempio: “Il fine giustifica i mezzi”. Lo vedo in tutta la società. Lo vedo in politica, lo vedo nella pubblicità, lo vedo in una varietà di luoghi e sento che non c’è credenza più perniciosa o tossica di quella. Direi che i mezzi giustificano il fine, ma non il contrario».

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