L’autonomia delle regioni del Nord? «Il Sud è contrario perché si accontenta di essere assistito»

L’intervista a Dario Stevanato, professore di diritto tributario e sostenitore dell’autonomia:  «Il Sud si oppone perché teme di perdere il suo bottino»

La legge sull’autonomia delle Regioni? «Un terreno inesplorato. Una sperimentazione da fare, prevista dalle norme costituzionali». Parola di Dario Stevanato, professore ordinario di diritto tributario all’Università di Trieste e avvocato. «Alcune reazioni – dice – mi fanno venire il sospetto che ci sia qualcuno che vuole perpetrare lo status quo, in cui il Sud, tutto sommato, si accontenta di essere assistito e teme che vengano rotti degli equilibri».


Il tributarista è favorevole all’autonomia per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. E fa parte della delegazione veneta che ha portato avanti la trattativa con il Governo. Lo abbiamo intervistato dopo aver sentito il parere critico dell’economista Gianfranco Viesti, che definisce l’autonomia una «secessione di fatto»..


L'autonomia delle regioni del Nord? «Il Sud è contrario perché si accontenta di essere assistito» foto 1
Dario Stevanato, professore ordinario di diritto tributario all’Università di Trieste e avvocato

Insomma, questa autonomia converrebbe a tutti? Anche al Meridione?

«È un terreno poco esplorato. Anzi, è la prima volta che si va verso l’attuazione dell’articolo 116 comma 3 sull’autonomia differenziata. Probabilmente nessuno è sicuro di quello che accadrà. Ci sono tre regioni che l’hanno richiesta e che ritengono di poter gestire in modo più efficiente determinate funzioni rispetto a quello che fa lo Stato – penso alla sanità o alla scuola – che hanno buone performance in Lombardia e nel Veneto. Sul fatto che la maggiore autonomia al Nord faccia star meglio il Sud: non me la sento di dirlo. Credo però che potrebbe portare a un risveglio delle regioni meridionali. E forse l’azione dello Stato potrebbe essere più efficace, se si spoglia e si alleggerisce rispetto a quello che fa oggi: potrebbe dedicarsi insomma di più ai territori che ne hanno bisogno e al loro sviluppo.

Poi c’è il tema dell’uguaglianza, ma già oggi ci sono forti differenze. Il Veneto è stretto tra due regioni a statuto speciale: Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige che possono disporre di servizi migliori e maggiori risorse. Il Veneto, e forse anche la Lombardia, subiscono questa concorrenza, ad esempio nella sanità: un settore che sta entrando in crisi perché molti medici, attratti dagli stipendi più alti e dai carichi di lavoro più leggeri, si stanno spostando verso Trento e Bolzano. C’è quindi, secondo me, una legittima richiesta di maggiori spazi di movimento e di autonomia delle regioni del Nord.

Appunto: non c’è il rischio di incentivare le migrazioni nelle regioni “autonome”, impoverendo le altre?

«È un rischio da considerare, che però sta già avvenendo: penso ai tanti cittadini del Sud che si spostano a curasi al Nord. Solo che ormai il Settentrione è sotto pressione e non riesce più a curare nessuno. È un discorso difficile. Non so se conviene il livellamento verso il basso per tutti o un tentativo di liberare quelle energie che ci sono in certi territori, innescando un circolo virtuoso a livello generale. Capisco le preoccupazioni, ma la si può vivere come una sperimentazione e vedere cosa succede tra qualche anno».

E non avrebbe avuto più senso, allora, agire prima di tutto sulla lotta all’assistenzialismo e sul potenziamento delle regioni dei Sud?

«Finché un territorio è assistito, continuerà a volerlo essere. Sembra che si tema di “perdere il bottino”: in realtà il bottino è costituito dalle tasse che il Nord versa. C’è un elemento che non viene considerato a sufficienza: quello dell’evasione fiscale diversamente distribuita sul piano territoriale. Al sud le tasse non si pagano o si pagano molto meno. I dati sulla distribuzione territoriale dell’evasione dicono che è molto più alta nelle regioni meridionali. E ancora: le tre regioni che stanno discutendo l’autonomia – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – sono agli ultimi posti come spesa pubblica pro capite. Siamo al paradosso: le regioni del Nord che producono di più e pagano più tasse sono quelle che in cambio ricevono meno in termini di spesa pubblica rispetto a quelle del Sud, sia in valore assoluto che in percentuale rispetto al Pil.

Se le regioni del Sud non se la sentono, al momento, di avere maggiore autonomia, è giusto che ci sia un più serio intervento dello Stato. Un intervento che mi sembra ad oggi più rivolto non tanto all’erogazione di servizi, ma a forme di assistenza monetaria. Ho l’impressione che la storia del nostro Paese sia segnata da un’ ingente spesa pubblica dirottata al Sud soprattutto sotto forma di sussidi, e sussidi mascherati da posti di lavoro. Pensiamo al reddito di cittadinanza, di cui probabilmente beneficeranno anche persone che non ne avrebbero diritto, ma che appaiono nullatenenti senza esserlo. Magari nel Meridione non ci sono i servizi perché le classi dirigenti del Sud hanno preferito attirare risorse in forma di assunzioni parassistenziali, sussidi, pensioni, false invalidità che nessuno controlla e l’evasione non viene combattuta. Un dato di fatto, anche se molte persone al Sud non approvano».

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L’autonomia che verrà non porterà quindi, secondo lei, a uno spaccamento dell’Italia a metà e a una condanna del Sud?

«Non la vedrei così. Viene dato per scontato come esito, ma non vedo perché. Mi farei la domanda opposta: negare alle regioni del Nord quegli spazi di autonomia che vengono richiesti sulla base di una norma costituzionale non rischia di acuire la situazione e a spingere verso gli Stati indipendentisti, che in certi territori sono latenti ma ci sono? Forse la richiesta di autonomia differenziata è un esperimento che potrebbe essere tentato, con un monitoraggio tra pochi anni. Magari si scopre fra cinque anni che era meglio far gestire determinate funzioni allo Stato. Sarebbe opportuno poter eventualmente fare marcia indietro su alcuni temi. Ma penso si possa tentare una sperimentazione in modo sereno senza alzare le barricate, né da una parte né dall’altra. D’altro canto è previsto un meccanismo per cui le parti si siedono al tavolo e lo ridiscutono al termine di un certo periodo».

Con l’autonomia differenziata verranno rispettati i Livelli Essenziali di Prestazione nelle diverse regioni?

«Questo prescinde dal tema dell’autonomia. Al momento sono stati citati pochi ambiti e gli altri sono da fissare. Forse questo impulso nuovo alla concezione del rapporto Stato-territorio potrebbe richiede un’accelerazione. Le bozze di intesa delle regioni prevedono che si arrivi in breve a una definizione dei fabbisogni standard e quindi dei livelli essenziali di prestazione. Altrimenti, secondo me, non succede nulla: continua a restare tutto pietrificato».

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La ministra per gli Affari regionali, Erika Stefani, lascia Palazzo Chigi al termine del Consiglio dei ministri sull’autonomia, Roma, 14 febbraio 2019. Ansa / Massimo Percossi

Quali saranno gli effetti concreti su settori come scuola, università e lavoro?

«Dipende: le richieste delle tre regioni non sono identiche, e non è chiaro cosa verrà accolto e cosa no. Mi sembra però ci siano due grandi categorie di cambiamenti: uno sul piano normativo legislativo che in certe materie passerebbe alle Regioni. L’altra sulla gestione concreta del personale, delle risorse, dei servizi. Il Veneto, per esempio, ha in mente maggiore libertà nell’assunzione di medici, nella gestione del corpo insegnanti, nella definizione dei programmi anche nelle università, nella ricerca e nell’insegnamento. Qualcuno dice che così si va a rompere l’unità nazionale: mi sembra tutto da dimostrare. Certo è una scommessa per tutti. Se avessimo uno Stato nazionale in cui tutto funziona, si potrebbe pensare che non ha senso andare a toccare un meccanismo virtuoso. Ma non mi sembra che la realtà sia questa».

Quali sono i tempi necessari per l’attuazione di questa riforma?

«Sul piano procedurale, se ci sarà l’intesa tra lo Stato e le singole regioni (e solo all’esito di questo processo), ci sarebbe l’avvio vero e proprio dello spostamento delle competenze, delle funzioni e delle risorse. A questo punto i tempi sono dettati dalla politica. Se trovano l’accordo e non cade il governo, il processo potrebbe essere concluso entro l’anno. Ma alla luce delle prese di posizione di queste ore è ancora tutto da capire. Non so se l’intesa sarà raggiunta e se avrà l’approvazione parlamentare, mi pare di assistere nelle ultime ore a una radicalizzazione delle posizioni: Movimento 5 Stelle e intellettuali e governatori del Sud mi pare siano sulle barricate, con dichiarazioni incendiarie come quelle del sindaco di Napoli Luigi De Magistris che parla di dover passare sul suo cadavere. Io sono a favore del processo, ma è tutto da vedere: al momento non sarei così ottimista».

Foto di copertina: Luigi Di Maio e il governatore del Veneto Luca Zaia. Ansa/Alessandro Di Meo

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