«Secessione dei ricchi»? Cos’è l’autonomia differenziata che potrebbe aumentare il divario tra Nord e Sud

Ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali: sono cinque le materie prioritarie scelte dalle regioni. Scuole e ospedali i temi più caldi. Il Consiglio dei ministri ha fissato il 15 febbraio come data entro la quale definire le proposte di autonomia 

Con i referendum in Lombardia e in Veneto del 22 ottobre 2017 e su iniziativa dell’Assemblea regionale dell’Emilia-Romagna del 3 ottobre 2017, in Italia si è aperto il dibattito sulla cosiddetta autonomia differenziata. Benché, come recita l’art. 5 della Costituzione, la Repubblica italiana sia «una e indivisibile» e che la Repubblica «riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Ma è con il più recente Titolo V della Costituzione del 2001 che vengono introdotti alcuni principi di federalismo fiscale come lo intendiamo oggi. Nonostante le polemiche sulla costituzionalità di alcuni assunti, le tre regioni del Nord hanno preso l’iniziativa e, il 28 febbraio del 2018, hanno raggiunto degli accordi preliminari con il governo Gentiloni. Questi prevedono una durata decennale dell’intesa sull’autonomia, suscettibile di modifiche «qualora nel corso del decennio si verifichino situazioni di fatto o di diritto che ne giustifichino la revisione».


Le materie

In tutti e tre i casi, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno scelto delle materie di interesse prioritario:


  • Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema
  • Tutela della salute
  • Istruzione
  • Tutela del lavoro
  • Rapporti internazionali e con l’Unione europea

Il Consiglio dei ministri, il 21 dicembre 2018, ha fissato il 15 febbraio di quest’anno come data entro la quale definire le proposte di autonomia differenziata. È stato ribadito però che ogni intesa raggiunta tra Stato e territori dovrà avere l’approvazione in Parlamento. Oltre a Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, il ministro per gli affari regionali Erika Stefani ha confermato inoltre che sono state ufficialmente ricevute richieste di autonomia da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche. Tutte regioni del Nord e del Centro Italia.

Le possibili conseguenze

Centotrenta intellettuali hanno sottoscritto un appello secondo cui «venerdì 15 febbraio l’Unità d’Italia comincia a sgretolarsi». C’è poi chi parla di «secessione dei ricchi», basandosi sull’idea che il residuo fiscale, ovvero la differenza tra l’ammontare d’imposte ricevuto dallo Stato e i fondi che lo stesso eroga sotto forma di servizi, adesso non potrà più servire a ridurre il gap tra regioni sottosviluppate e regioni più ricche, ma resterà all’interno di quei territori che già viaggiano a una velocità maggiore. Questo principio, tuttavia, non sarebbe totalmente corretto in quanto in uno Stato unitario i cosiddetti residui fiscali regionali non esisterebbero nel bilancio pubblico, dato che il rapporto fiscale si svolge tra il singolo cittadino e lo Stato, senza passare per la regione.

Il dibattito su sanità e istruzione

Ad ogni modo, stando alle bozze trapelate nell’ultimo periodo, sono soprattutto sanità e istruzione ad accendere i dibattiti. Le regioni, ognuna con le singole prerogative, chiederebbero più autonomia per superare il tetto di spesa per il personale sanitario, gestire in maniera autonoma ticket, sistema tariffario, politiche del farmaco e spese per le infrastrutture. Nell’autonomia richiesta sulla sanità, le regioni vorrebbero poter stipulare accordi con le università del territorio, attivando quindi percorsi formativi di specializzandi medici con contratti a tempo determinato come alternativa alla formazione specialistica già esistente. Per l’istruzione, le critiche più forti sono contro una «regionalizzazione della scuola». Non cambierebbero i programmi di insegnamento che, secondo la Costituzione, devono essere uguali a livello nazionale. Piuttosto dalle bozze si evince che la nomina degli insegnanti dovrà essere regionale.

Ovviamente i provvedimenti non andrebbero a intaccare le cattedre già ricevute da maestri e professori provenienti da altre regioni italiane, ma le nuove assunzioni sarebbero fatte tra gli abilitati del territorio regionale. Lombardia e Veneto guardano inoltre al modello della provincia autonoma di Trento, dove gli insegnanti percepiscono uno stipendio più alto di quello previsto dal contratto nazionale, erogato attraverso le casse regionali. Questa gratificazione economica migliorerebbe anche la qualità dell’insegnamento: il Trentino, per esempio, eccelle nei test Invalsi.

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