Rivoluzione Chinatown, i giovani italiani al servizio dei cinesi

Sempre più studenti e lavoratori italiani sono impiegati in attività e servizi commerciali fino a poco tempo fa popolati interamente da asiatici. L’indagine di Open tra casi di integrazione e di sfruttamento 

Sono 30 mila i cinesi residenti a Milano. Circa 6 mila di loro sono titolari di imprese: una su cinque è un bar, un parrucchiere o una piccola attività. Nel tessuto commerciale della città, il ruolo della comunità cinese più numerosa d’Italia è diventato fondamentale. Ma nel profondo, resta una comunità chiusa: attività e piccole imprese hanno come fulcro il nucleo familiare e non è facile entrare nelle loro dinamiche per farsi raccontare direttamente la concezione del lavoro, l’idea di commercio e il rapporto con i dipendenti. Ma una cosa è alla luce del sole: sempre più italiani lavorano per esercizi commerciali fino a poco tempo fa popolati esclusivamente da cinesi. 


La buona imprenditoria cinese

«Prendiamo lavoratori italiani perché i cinesi che sono qui oramai non lavorano. Le seconde generazioni hanno perso la voglia di fare, la fame che avevano i nostri genitori. Noi assumiamo solo per il senso del lavoro. Nient’altro», racconta Luca Hu: da 18 anni gestisce il Chinese Box, un bar famoso in corso Garibaldi dove hanno lavorato tanti ragazzi italiani. «Io sono arrivato in Italia che avevo 6 anni e i miei genitori lavoravano in un laboratorio», dice con una cadenza marcatamente milanese. «Ma io non ho mai pensato di tornare in Cina. Lì le usanze, il cibo e i modi di rapportarsi sono troppo diversi dai nostri». Luca usa il “noi” per parlare degli italiani e il “loro” per parlare dei cinesi.


Anche Jessica Zhu, ideatrice dello Spazio NoLo 43 in viale Monza, dice: «Io prima di tutto sono milanese. Poi italiana e infine cinese». Nel suo locale è riuscita a far convivere perfettamente una caffetteria, una boutique di abbigliamento e una fitta programmazione di mostre ed eventi. Suo il merito di aver creato un luogo di aggregazione nella inusuale zona di viale Monza. «A me non interessa quale sia la nazionalità quando devo assumere qualcuno», spiega, «l’importante è che sappia parlare bene l’italiano visto che la mia clientela è italiana. Tutto qua».

Non è tutto oro quel che è cinese

Quando le cose vanno bene, i locali sono in regola e il lavoro è trattato con dignità. Ma le esperienze peggiori per i dipendenti – che siano italiani, cinesi o nordafricani – sono nascoste dietro decine di porte chiuse in faccia, altrettanti «non posso parlare, devo lavorare». Ambra e Manuela, ci hanno chiesto di usare due nomi di fantasia, hanno raccontato a Open la loro esperienza.

Il ristorante di Brera

«Ho lavorato per sei mesi in un ristorante che era gestito prima da italiani e poi è stato venduto a una famiglia cinese. All’inizio, ci hanno detto, avevano bisogno di personale italiano per dare credibilità al ristorante». Non era la prima esperienza di Ambra nel mondo della ristorazione, ma è stata l’ultima presso dei titolari di nazionalità cinese. «Ho iniziato a lavorare lì per necessità economica, ma non è stata una buona idea: i proprietari richiedono la massima efficienza in tutto e ogni cosa doveva essere fatta nel minor numero di passaggi e tempo possibile».

Ambra parla di condizioni non lontane dallo sfruttamento: «Con i titolari non era negativo il rapporto a livello personale. Ma non avevano il minimo interesse di capire il modo di ragionare e di lavorare degli italiani. Per loro il guadagno è la cosa più importante e non guardano in faccia nessuno per raggiungere l’obiettivo economico». Quando le chiediamo se fosse un ristorante di basso livello, Ambra ci guarda quasi stupita: «State scherzando? È un locale frequentato da milanesi in giacca e cravatta in pausa pranzo e da turisti la sera». In che senso, allora, sono disposti a tutto per il profitto? «La pulizia ai miei titolari interessava solo per l’apparenza. La cucina era sporca e il magazzino – si ferma – preferirei dimenticare quello che ho visto».

E continua: «Noi dipendenti non avevamo un bagno privato, dovevamo usare quello della sala ma ovviamente, se ti scappava mentre eri in servizio, non potevi andarci. L’unica cosa davvero positiva era il rapporto con le colleghe, tutte ragazze italiane sui venticinque anni come me». Delle condizioni di lavoro che Ambra non accetterebbe mai più: «Lavoravo sei giorni a settimana dalle 10:00 alle 16:00. Guadagnavo circa 500 euro che, a fine mese, mi consegnavano direttamente in mano. Nessuno aveva contratti regolari, eccetto l’ex proprietario, demansionato a cuoco e una cameriera che aveva un contratto di stage, che stage però non era». Poi conclude: «Me ne sono andata perché era una catena di montaggio senza interesse per la ristorazione, per la qualità delle materie prime e per il rapporto con i clienti».

 

Il parrucchiere in zona Paolo Sarpi

Manuela ha solo 17 anni e sta svolgendo la sua alternanza scuola-lavoro in un parrucchiere vicino via Paolo Sarpi. «È il mio quarto mese in questo centro, ma prima ho lavorato anche in altri negozi gestiti da italiani». È difficile far aprire Manuela, ha paura di avere ritorsioni per quello che potrebbe dire. «Il mio stipendio? È un argomento delicato, nessuno vorrebbe pagare un apprendista perché è, appunto, in fase di apprendimento».

Non vuole proprio raccontare quanto i parrucchieri titolari la paghino: «Preferisco non dire il mio guadagno, piuttosto vi dico che lavoro circa nove ore al giorno, la domenica riposo e il lunedì faccio formazione fuori dall’ambito lavorativo». Manuela non sa se è giusto il suo trattamento da parrucchiera, fissandola dalla vetrina però sembra una dipendente a tutti gli effetti: non si ferma mai tra un phon e una postazione per lo shampoo. Intanto, sul retro, dietro un pappagallo in gabbia, si vedono i titolari pranzare tra cartoni e materiale da lavoro.

Manuela pare ottimista e determinata, come una ragazza di 17 anni dovrebbe essere: «Un giorno ho notato un cartello su una vetrina in zona Sarpi: chiedevano se ci fosse un’apprendista disponibile. Io mi sono fatta avanti, sono sempre stata dell’idea che bisogna mettersi in gioco, bisogna provare esperienze nuove e, se qualcuno ti offre un lavoro, non bisogna tirarsi indietro». Ma se le condizioni non miglioreranno, come nel caso di Ambra, anche Manuela cambierà lavoro.

La parabola della gelateria Chateau

Enrico, invece, vuole metterci la faccia per raccontare, dal punto di vista privilegiato di chi lavora in via Paolo Sarpi da 16 anni, la sua versione sul cambiamento della Chinatown milanese. All’estremità est di Paolo Sarpi c’è Chateau, una gelateria/ristorante presa in gestione da un imprenditore cinese che ha assunto personale multietnico. Tra questi c’è Enrico, l’ex proprietario dell’attività, che tra altri mille impegni, è rimasto nel suo Chateau a fare il gelato come un normale dipendente.