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Perché sulle città italiane le bombe d’acqua fanno tanti danni

23 Giugno 2019 - 08:45 Redazione
Il Politecnico di Torino ha rilevato, su base statistica, che in alcune aree d'Italia la frequenza e l'intensità delle bombe d'acqua mostra tendenze all'aumento nel tempo, a causa della maggiore capacità dell'atmosfera di immagazzinare vapor d'acqua, grazie al riscaldamento globale

Le città italiane sono in ritardo nel predisporre piani di adattamento ai cambiamenti climatici e soprattutto alle cosiddette bombe d’acqua che, fra l’altro, stanno crescendo di numero e intensità. È l’allarme lanciato da uno studio del Politecnico di Torino apparso su “Geophysical Research Letters” e scritto da tre esperti di idrologia: Pierluigi Claps, Daniele Ganora e Andrea Libertino del dipartimento di Ingegneria per l’ambiente, il territorio e le infrastrutture dell’ateneo subalpino.

L’indagine esamina in particolare i nubifragi estremi italiani, ormai comunemente denominati bombe d’acqua e conclude che «in alcune aree la loro intensità sta effettivamente aumentando». A partire dal 2000, anno della grande alluvione del Po, si rileva, la stragrande maggioranza delle 208 vittime censite dal CNR-IRPI nel progetto “Polaris” sono state causate da alluvioni improvvise generate da forti nubifragi di breve durata.

Molto spesso, indica lo studio, «questi disastri sono avvenuti in aree urbane, che mostrano sempre di più la loro vulnerabilità rispetto a questi eventi, tanto intensi quanto improvvisi e concentrati geograficamente». «Queste caratteristiche rendono ancora oggi molto arduo il compito della Protezione Civile di assicurare alla popolazione un sufficiente preavviso – spiega Pierluigi Claps – Questo rende a volte molto gravosa la responsabilità dei sindaci di indicare in tempi brevi le misure di emergenza da adottare, come insegnano i casi di Genova 2011 e Livorno 2017. La preparazione della popolazione rispetto alle piene improvvise, le cosiddette ‘flash floods’, si può costruire preparando scenari di rischio nei quali si simulano eventi di pioggia di forte intensità per prevedere le conseguenze quando le opere di protezione non dovessero risultare sufficienti, come nel caso di Via Fereggiano a Genova».

I risultati della ricerca del Politecnico di Torino sono basati sull’elaborazione di piogge torrenziali registrate in intervalli da 1 ora a 24 ore, tratte da una banca dati costituita da circa 5.000 stazioni che hanno funzionato nell’arco di un secolo, a partire dal 1915. Un campione rappresentativo di 1.346 stazioni ha reso possibile rilevare, su base statistica che in alcune aree d’Italia la frequenza e l’intensità delle bombe d’acqua mostra tendenze all’aumento nel tempo, a causa della maggiore capacità dell’atmosfera di immagazzinare vapor d’acqua, grazie al riscaldamento globale.

«L’Italia risulta un Paese di per sé vulnerabile ad alluvioni e frane, ma la ricerca evidenzia che, indipendentemente dalla fragilità del territorio, è proprio il clima a mostrare una intensificazione dei suoi fenomeni estremi nel Nord-Est, in Liguria ed in altre aree del centro e del sud del Paese», spiegano gli esperti.

Esaminando l’andamento nel tempo dei ‘record’ nazionali di pioggia totale in poche ore, i ricercatori hanno rilevato che il ritmo con cui questi record vengono superati è cresciuto solo nell’ultimo decennio, e solo in alcune aree geografiche, senza però raggiungere l’evidenza statistica. «Finanziare la ricerca significa anche fornire ai cittadini elementi concreti su cui basare i propri comportamenti e le richieste da indirizzare ai propri amministratori – conclude Claps – In questo caso i risultati sono arrivati anche grazie a fondi che il Politecnico di Torino ha reso disponibili in autonomia ai propri docenti e ricercatori per compensare la scarsità di occasioni di finanziamento in ambito nazionale. Una proposta di ricerca su questo argomento, presentata in collaborazione con scienziati di fama interazionale di altre università italiane e del CNR, è stata recentemente bocciata dal Ministero per l’Università e la Ricerca nell’ultimo bando PRIN».

di Chiara Caratto

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