Il caso del magazzino dell’ex Ilva: adesso è vuoto, prima c’erano merci per 500 milioni di euro

Due le ipotesi di reato che sarebbero al vaglio degli inquirenti di Taranto: distruzione di mezzi di produzione e appropriazione indebita. A Milano si indaga per aggiotaggio informativo e distrazione di beni del fallimento

Due filoni di indagine, uno a Taranto e uno a Milano, che si concentrano sullo stato attuale del magazzino dello stabilimento pugliese dato in gestione ad ArcelorMittal e su alcune manovre poco chiare del gruppo. La Guardia di finanza, su mandato delle due procure, ha effettuato perquisizioni e sequestri negli uffici della società franco-indiana. I magistrati vogliono appurare se sia in corso un depauperamento del ramo di azienda che i Mittal vogliono restituire allo Stato italiano.


Benché sia ancora tutta da verificare l’esistenza di una fattispecie penalmente rilevante, il depauperamento delle risorse di un’impresa può anticipare il delitto di bancarotta fraudolenta. Spiegato in modo più semplice, se un gestore vende parte del patrimonio e dirotta quelle ricchezze altrove in previsione del fallimento della sua attività o anche se avesse solo intenzione di cederla o restituirla, i giudici potrebbero procedere contro gli amministratori della società.


Il magazzino vuoto: 500 milioni di euro spariti

Il reato, tuttavia, si realizza solo nel momento in cui l’impresa si dichiara fallita. Ma la Corte di Cassazione ha stabilito che il depauperamento può essere perseguito anche se avvenuto quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza. Anche per questo motivo i finanzieri hanno già proceduto all’acquisizione dei documenti di ArcelorMittal: insospettisce quel magazzino vuoto, le cui foto sono state fatte arrivare dai dipendenti alle procure, e la velocità con la quale la famiglia Mittal vuole abbandonare lo stabilimento.

Nel momento in cui ArcelorMittal ha preso in gestione l’ex Ilva, nel magazzino erano contenute materie prime destinate alla lavorazione negli altiforni per un valore di 500 milioni di euro. E qui sorgono due problemi. Primo, i Mittal hanno preso in gestione una società e ne avrebbero dovuto preservare il patrimonio: al momento l’azienda non ha alcuna giacenza, quei 500 milioni di euro che costituiscono un bene dato in affitto sono spariti e si rifiuta di procedere a rimpinguare quel magazzino. Secondo, se il magazzino restasse vuoto, sarebbe inevitabile lo spegnimento degli altiforni.

E se si spegnessero gli altiforni?

I danni per lo stabilimento sarebbero inestimabili, «definitivi» scrive il Tribunale di Milano. Se si spegnessero gli altiforni, e ciò potrebbe derivare anche dalla mancanza di materia prima nel magazzino, i primi «subirebbero un processo di raffreddamento che causerebbe danni sostanzialmente definitivi ai mattoni refrattari stessi, determinandone la riduzione di volume, l’insorgenza di lesioni, il distacco dalle superfici adiacenti tra mattone e mattone e dalle parti metalliche che realizzano le strutture portanti».

E se lo Stato o un nuovo gestore volesse far ripartire lo stabilimento? «Un riavviamento dell’impianto oggetto della sospensione di produzione innescherebbe quindi un processo graduale di riscaldamento dei mattoni refrattari precedentemente raffreddati foriero di gravissimi rischi non solo dal punto di vista tecnico ma, anche, sul piano della sicurezza del personale preposto, e dell’impatto ambientale».

L’intervento della Guardia di finanza – Taranto

Anche per scongiurare questa ipotesi le Fiamme gialle hanno sequestrato alcuni documenti negli uffici di Taranto e di Milano. La procura pugliese, dopo l’esposto dei commissari dell’ex Ilva, hanno invitato a reperire i rapporti sul movimento di merci, ordini e manutenzione degli impianti. Le ipotesi di reato al vaglio degli inquirenti tarantini potrebbero essere quelle di distruzione di mezzi di produzione e di appropriazione indebita. E questo scenario potrebbe prefigurarsi proprio in seguito allo svuotamento del magazzino.

L’indagine punterebbe ad appurare se è in atto o meno un depauperamento del patrimonio dell’azienda che i Mittal hanno già dichiarato di voler riconsegnare allo Stato italiano. La preoccupazione sorge in quanto ArcelorMittal, si legge nelle carte del Tribunale milanese, «ha interrotto qualsiasi ordine e acquisto di materie prime, ha rifiutato i nuovi ordini dei clienti, ha interrotto i rapporti con i subfornitori, ha interrotto l’avanzamento del Piano Ambientale e sta interrompendo la manutenzione degli impianti».

L’indagine di Milano

La procura lombarda si sta invece concentrando sull’eventuale aggiotaggio informativo e la distrazione di beni del fallimento. Per quanto riguarda la prima ipotesi di reato, i pm hanno preso in esame alcuni comunicati stampa distribuiti da ArcelorMittal e che avrebbero influenzato il mercato nei Paesi dove l’azienda franco-indiana è quotata. Il reato si configura quando vengono diffuse notizie false per alterare il prezzo degli strumenti finanziari.

Nel filone di distrazione di beni del fallimento su cui si sta focalizzando la procura milanese, gli inquirenti vogliono accertarsi che nessun dirigente o manager del gruppo abbia sottratto un bene dell’ex Ilva o lo abbia dirottato altrove per altri fini. Quei beni, in questo caso i 500 milioni di materie prime che al momento della consegna si trovavano nel magazzino, dovrebbero essere restituiti al concedente qualora i Mittal lasciassero Taranto. Nel momento in cui lo stabilimento dovesse fallire, inoltre, quei beni dovrebbero essere eventualmente impiegati per soddisfare i creditori dell’ex Ilva.

Tutte le indagini, al momento, sono portate avanti contro ignoti.

L’ombra rumena

«Un quadro generale che non può evidentemente che dare fiato a chi, al momento del contratto, aveva pronosticato che sarebbe rapidamente emerso che ArcelorMittal aveva stipulato il contratto al solo fine di uccidere un proprio importante concorrente sul mercato europeo». Queste, forse, le parole più dure nel ricorso presentato dai commissari dell’amministrazione straordinaria. L’accusa che vedrebbe i Mittal artefici di una strategia per tagliare fuori i concorrenti italiani dal mercato dell’acciaio si fonda su un precedente scomodo per l’azienda franco-indiana.

Nel 2003, ArcelorMittal, promettendo il rilancio del centro siderurgico di Hunedoara in Romania, aveva acquistato uno dei più importanti asset industriali romeni. Il Paese stava portando avanti una fase feroce di privatizzazioni e i Mittal fiutarono l’affare: si accaparrarono il complesso industriale attorno al quale era nata una città da 90 mila abitanti di cui 20 mila impiegati negli stabilimenti siderurgici. Dopo l’acquisto, ArcelorMittal procedette a un drastico ridimensionamento del personale: nel 2011, nell’impianto, lavoravano solo 700 dipendenti e l’industria siderurgica romena fu di fatto azzoppata per sempre.

Manovre import-export

Sono tutte ipotesi. Ma, qualora fossero verificate, costituirebbero fatti di gravità inaudita nella gestione ArcelorMittal dell’ex Ilva. Si sta valutando se c’è stata per davvero una svendita dei prodotti finiti. Secondo alcune indiscrezioni, l’acciaio prodotto nello stabilimento tarantino potrebbe essere stato venduto a società del gruppo Mittal a prezzi fuori mercato per poi essere rivenduti, sempre da ArcelorMittal, a prezzi congrui con un profitto per altri rami d’azienda del gruppo.

L’altra ipotesi, quella che riguarda le materie prime, viaggia nel senso opposto. Un filone delle indagini si concentrerebbe sull’acquisto di carbone e minerale di ferro, comprato a prezzi maggiorati rispetto a quelli praticati sotto la gestione dei commissari. Queste manovre, ancora da chiarire e verificare, potrebbero aver fatto registrare perdite maggiori per l’ex Ilva senza danneggiare l’intero gruppo. Anzi: con la chiusura dello stabilimento di Taranto, il gruppo franco-indiano avrebbe un concorrente in meno sul mercato europeo.

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