Giovani «anello debole del mercato del lavoro»: quasi 2 milioni di under 35 senza impiego dall’inizio della crisi

Non bastano gli incentivi cuscinetto: serve un welfare che permetta alle giovani generazioni di rientrare nel mercato del lavoro

Si chiama Luci e ombre del mercato del lavoro l’ultimo rapporto pubblicato dal Centro nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), che analizza le criticità maggiori di un decennio segnato dalla crisi economica. Una fotografia decisamente più sbilanciata sulle «ombre» che sulle «luci».


Nonostante il tasso di occupazione abbia raggiunto, nel 2019, degli alti livelli rispetto agli andamenti della storia recente del mercato del lavoro italiano, il nostro Paese resta tra quelli che fanno peggio in Europa (dopo di noi solo la Grecia).


Il quadro che lo studio ci restituisce parla di bassi livelli di istruzione terziaria rispetto alla media Ocse e di prospettive di occupazione per i laureati tra i 25 e i 35 anni più basse rispetto ai loro coetanei diplomati in istituiti professionali. Ci parla di una percentuale di Neet (Not in Education, Employment or Training, quasi mai per volontà personale) che nel 2018 ha raggiunto livelli del 28,9%, quasi il doppio rispetto alla media europea.

Un altro dato drammatico registrato dal rapporto è che nessuna regione italiana è riuscita, tra il 2008 e il 2018, a tornare sul livello di benessere registrato prima del 2008.

L’occupazione nel 2019 crescerà di un solo decimo di punto in più rispetto alla tendenza di questi anni, e il tasso di crescita nel 2020 sarà più basso che nel 2019: un’economia «stagnante», come scrivono dal Cnel.

Dieci anni di (dis)occupazione giovanile

Secondo quanto riportato dallo studio, la forza lavoro delle aziende italiane è tra le più anziane al mondo. «I giovani sono l’anello debole del mercato del lavoro», scrivono dal Cnel. «Dopo la crisi, molti non sono rientrati nel mercato e l’occupazione giovanile ha registrato un calo di 400mila occupati dal 2008 (-28,8%) tra i 15 e i 24 anni».

Non è migliore il ritratto che riguarda i giovani tra i 24 e i 34 anni, che dall’inizio della crisi non sono più rientrati nel mercato del lavoro: stando allo studio, si tratterebbe di circa 1,4 milioni di giovani adulti, che rappresentano una percentuale occupazionale del -27%.

«La disoccupazione giovanile resta tre volte più alta di quella degli adulti», denuncia il presidente Tiziano Treu. «E i numeri del part time involontario dimostrano come molte capacità umane siano forzatamente inutilizzate, colpendo ancora in prevalenza donne e giovani».

L’Italia pare essere dunque ferma da oltre vent’anni, con una prospettiva di crescita che oscilla «intorno allo 0.2% annuo», che vede un tasso di partecipazione al lavoro sempre inferiore a quella dei Paesi protagonisti dell’economia mondiale.

Bastano gli incentivi sulle assunzioni giovanili?

Incentivi per gli under 30 assunti con contratti di apprendistato, incentivi per studenti che hanno svolto l’alternanza scuola-lavoro, incentivi per indeterminati agli under 35, incentivi per Neet, incentivi per giovani residenti al Sud.

Il repertorio nazionale e regionale dei bonus per le aziende che scelgono di assumere un giovane under 30 è variegato, ma si tratta spesso di misure cuscinetto che non risolvono alla radice il problema.

Come si legge nello studio, il sostegno dell’occupazione giovanile «non può basarsi né solo né in prevalenza su incentivi per le assunzioni, ancorché mirati e strutturali».

Sono necessarie invece «azioni di sistema sui nodi critici»: bisogna superare lo svantaggio culturale delle giovani generazioni italiane rispetto a quelle di altri Paesi, «portando tutti i livelli dell’istruzione agli standard europei secondo gli obiettivi dell’Agenda 2020» e rafforzare le competenze in ogni altro ambito.

La priorità: investire nell’istruzione

Oltre all’occupazione, uno dei punti centrali dell’Agenda europea 2020, stilata per agevolare l’uscita dei Paesi dalla crisi economica e delineare un modello di sviluppo preciso, è l’istruzione. Due punti, formazione e lavoro, impossibili da pensare separati.

Entro il 2020, ogni Paese membro deve impegnarsi a migliorare i livelli di educazione culturale dei propri cittadini, garantendo una laurea per il 40% dei giovani di età compresa tra i 30 e i 34 anni e puntando a una riduzione della dispersione scolastica (che non superi il 10%).

Dati Istat

Ma oltre ad un’omogeneizzazione dei livelli di alfabetizzazione base, investire nell’istruzione – quindi nel welfare – significa anche rafforzare le competenze digitali e migliorare gli strumenti per facilitare il primo accesso dei giovani al lavoro.

Tirocini, alternanza scuola-lavoro e apprendistati potrebbero essere una buona strategia a patto che, però, vengano svolti all’interno di realtà che possano contribuire realmente alla formazione di chi ne prende parte. Benché un’esperienza in un ambiente museale possa essere considerata coerente con il percorso di studi di uno studente del liceo classico, strappare i biglietti all’ingresso difficilmente può essere un’esperienza formativa a 360 gradi.

E magari che siano esperienze retribuite: in Germania, ad esempio, gli studenti che scelgono un percorso di alternanza scuola-lavoro diventano “apprendisti” e ricevono uno stipendio. In una politica del lavoro che si dica attiva, diritto alla formazione e diritto al lavoro sono due facce della stessa medaglia.

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Foto: Warren Wong su Unsplash