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Trump è davvero «pronto alla pace»? Quali saranno le prossime mosse dell’Iran e degli Usa? Lo abbiamo chiesto a un esperto – L’intervista

09 Gennaio 2020 - 06:34 Felice Florio
Ad ascoltare il discorso alla Nazione di Donald Trump, sembra che il presidente abbia sepolto l'ascia di guerra. Ma Soleimani era molto più di un'istituzione. Davvero l'Iran rinuncerà a ulteriori ritorsioni? Trump è seriamente interessato alla pace? Lo abbiamo chiesto a Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche ed esperto di relazioni transatlantiche

Nel suo discorso alla Nazione, Donald Trump sembra aver sepolto l’ascia di guerra. «Gli Stati Uniti sono pronti alla pace, con tutti quelli che la desiderano», ha detto il presidente americano.

Ma il generale Qassem Soleimani era molto di più di un istituzione nel suo Paese: era un idolo per gli iraniani, riunitisi a milioni in strada per celebrare un funerale durato tre giorni. Ucciderlo, la notte del 3 gennaio, è stata una mossa in grado di destabilizzare un’area geografica che va ben oltre i confini di Iran e Iraq.

Gli Stati Uniti hanno agito con prepotenza, senza che ci fosse alcun conflitto in corso con Teheran. Davvero l’Iran rinuncerà a ulteriori ritorsioni? Qual è stato lo scopo della mossa di Donald Trump?

«Donald Trump è sempre stato abituato a negoziare partendo da una posizione privilegiata: questo atto è servito a ricalibrare i rapporti di forza tra i due Paesi». Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa all’Università Cattolica ed esperto di relazioni transatlantiche dell’Ispi, inquadra la crisi “militare” tra Iran e Stati Uniti come il preludio di una negoziazione diplomatica che partirà a breve.

Professore, davvero ci sarà una de escalation?

«Dal mio punto di vista ritengo che la crisi iniziata il 3 gennaio, che quattro giorni dopo ha visto la reazione di Teheran, finirà per riassorbirsi in maniera spontanea. Né Stati Uniti né Iran hanno voglia e mezzi per arrivare a un confronto su larga scala. Interpreto questa serie di raid e azioni bellicose non convenzionali come un tentativo di gonfiare i muscoli per apparire l’uno più influente dell’altro agli occhi del mondo».

La potenza militare statunitense è indiscussa, perché non dovrebbero avere i mezzi per iniziare una guerra?

«Perché per dare il via a un conflitto armato bisogna contare su una sincera coesione interna al Paese. Congresso e amministrazione degli Stati Uniti sono in rotta di collisione: con questi presupposti di politica interna, non ci si può impegnare in un conflitto duraturo. Poi c’è il fattore campagna elettorale: benché Donald Trump abbia dimostrato di poter agire sopra le righe, difficilmente comprometterebbe la sua candidatura iniziando oggi un conflitto dagli esiti incerti».

Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa all’Università Cattolica ed esperto di relazioni transatlantiche dell’Ispi

A questo punto perché bisogna escludere che il conflitto lo avvii l’Iran, sfruttando il pretesto dell’uccisione di una sua autorità?

«Nonostante le dichiarazioni infervorate di Khamenei e Rouhani, l’Iran non ha la potenza militare per reggere un confronto con gli Stati Uniti. D’altronde, benché l’uccisione di Soleimani abbia fatto da collante sociale, il Paese sta affrontando da tempo difficoltà economiche rilevanti e che sono alla radice degli scontri di piazza a cui abbiamo assistito gli scorsi mesi. Deprimere ulteriormente l’economia veicolando le risorse in una guerra, sarebbe insostenibile per il tessuto sociale dell’Iran».

Se nessuno è interessato a una guerra, perché gli americani hanno alzato la tensione nell’area?

«È una prova di forza a tutti gli effetti: dal 3 gennaio, tutto il mondo deve ricordarsi che gli americani sono in grado di colpire qualsiasi tipo di bersaglio, in qualsiasi luogo del mondo. Ritengo che tutte le dichiarazioni successive al raid contro Soleimani siano tentativi a posteriori di legittimare quell’attacco. E quell’azione militare va analizzata in un contesto negoziale tra Stati Uniti e Iran».

È strano leggere l’uccisione di un’istituzione straniera come il naturale passaggio di una negoziazione.

«Secondo me questa prova di forza è perfettamente coerente con le voci che circolavano nelle diplomazie riguardo una ripresa del dialogo con l’Iran. Donald Trump ama negoziare partendo da una posizione di superiorità e adesso ha creato i presupposti per le trattative. Certo, non vedremo mai un tavolo aperto e pubblico in cui Trump e Rouhani saranno seduti faccia a faccia. Sarà un dialogo mediato da un Paese terzo. In questo senso, ritengo non sia una caso che un paio di settimane fa Rouhani sia stato invitato in Giappone, Paese storicamente amico degli Stati Uniti».

Questo dal lato americano, ma siamo sicuri che l’Iran accetti il gioco intavolato dagli Stati Uniti?

«Guardiamo la reazione iraniana: è stata essenzialmente simbolica a fronte della portata del colpo subito. Sia a livello militare che a livello diplomatico Teheran è stata estremamente contenuta. Basta pensare che l’Iran continua a muoversi all’interno dell’accordo sul nucleare: le dichiarazioni e le rappresaglie iraniane assumono un valore simbolico, non effettivo. Lo stesso ministro degli Esteri ha parlato di una reazione, badate bene, proporzionata ai sensi della carta delle Nazioni Unite. In seconda lettura, io interpreto le sue parole così: “Il nostro onore è stato tutelato attaccando le basi militare americane in Iraq, non abbiamo intenzione di andare oltre».

E per quanto riguarda il nucleare iraniano a scopo bellico?

«Non sono in grado e non hanno intenzione di fabbricare nessuna arma nucleare. L’Iran ha dichiarato che avrebbe ripreso l’arricchimento dell’uranio su un numero illimitato di centrifughe. Ciò rientra nelle clausole di salvaguardia dell’accordo sul nucleare, di certo nessuno ha parlato di un arricchimento military grade. L’arricchimento dell’uranio di cui si è parlato ha solo scopi civili. Tant’è vero che Teheran ha affermato di essere disposta a ricevere gli osservatori delle agenzie internazionali per i controlli sul suo nucleare».

L’opinione pubblica americana cosa pensa delle manovre militari di Trump?

«La mattina dell’8 gennaio i dati Gallup raccontavano di una preoccupazione crescente tra i cittadini americani: è aumentata la paura di un conflitto armato ed è cresciuta anche la percezione negativa delle manovre di Trump in materia di politica estera. Ma l’opinione pubblica statunitense resta estremamente polarizzata, ed è un po’ la caratteristica della politica americana degli ultimi anni. Nel bacino di sostenitori di Trump il consenso rimane solido, la preoccupazione esacerba l’elettorato che si definisce democratico».

L’iran, invece, è preoccupato per ulteriori azioni statunitensi?

«Sicuramente no. Sia la Russia che la Cina, negli ultimi anni, si sono avvicinate molto all’Iran: questo spiega sia la tranquillità delle istituzioni sia la moderazione effettiva delle risposte iraniane. Sanno di poter contare su due alleati forti. Se c’è un attore la cui assenza è significativa nello scenario attuale è, come al solito, l’Europa. Il nostro continente è stato grande protagonista del negoziato per l’accordo sul nucleare, ma negli ultimi anni ha perso interesse per quell’area del mondo. Io interpreto la questione dell’accordo sul nucleare come un Cavallo di Troia europeo per incentivare una distensione tra Stati Uniti e Iran. Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, quel progetto di dialogo ha preso un’altra piega e l’Europa si è disinteressata dalla questione».

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