Berta: «Le polemiche su Fca sono tardive. Lo Stato doveva muoversi diversamente sulla fusione con i francesi» – L’intervista

Lo storico dell’industria italiana spiega perché le proposte avanzate in questi giorni dalla politica – Calenda su tutti – sono modeste. E auspica anche per il settore automobilistico una politica comunitaria

Quanto è italiana FCA? Lo è sempre o soltanto nel momento del bisogno? Lo sarà fin quando quasi centomila dipendenti lavoreranno nelle sue fabbriche, nonostante abbia la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra? La richiesta da parte di FCA (Fiat Chrysler Automobiles) di garanzie dallo Stato su un prestito di 6,3 miliardi per affrontare l’emergenza Coronavirus ha fatto esplodere nuovamente il dibattito sul suo rapporto con l’Italia. Il progressivo allontanamento dell’azienda dal nostro Paese – cominciato nel novembre 2012 dopo la fusione con Cnh Industrial e proseguito con l’espatrio delle sedi di Fca, Ferrari e infine Exor – ha sicuramente comportato una perdita per il fisco italiano, anche se è difficile calcolarne l’ammontare preciso. D’altro canto, buona parte della produzione è rimasta in Italia, dove l’azienda conta ancora circa 400 mila dipendenti impegnati nella filiera.


Per una parte della politica il Coronavirus sembra presentare un’occasione per una resa dei conti con la Fiat o quantomeno per prendere una posizione forte rispetto ai trasferimenti all’estero di società italiane. Nel farlo, più che tener conto del passato, avrebbe senso tener conto del futuro, sostiene lo storico Giuseppe Berta, autore di numerose pubblicazioni sulla storia dell’industria italiana. All’orizzonte, infatti, c’è un’altra questione, che riguarda l’imminente fusione del gruppo FCA con la PSA francese. Un’operazione che potrebbe avere delle ricadute sull’assetto dell’azienda in Italia e quindi dovrebbe essere presa in considerazione per la valutazione di eventuali prestiti e delle condizioni ad essi collegati.  


È giusto che lo Stato italiano garantisca un prestito a una compagnia che ha la sede legale o fiscale all’estero ma che in Italia impiega circa 400 mila lavoratori nella filiera?

«Questo dilemma mi appassiona poco, perché è un’ottica che riguarda il passato più che il futuro. Infatti, tra pochi mesi non ci sarà più Fiat Chrysler ma sorgerà il nuovo gruppo dall’aggregazione con PSA a guida francese. Sollevare oggi tali questioni dopo che non si è fatto nulla per deviare il corso delle deliberazioni assunte mi sembra tardivo. Se è vero che questa fusione continua ad essere operativa e vogliamo davvero preoccuparci del futuro dei nostri impianti automobilistici, dobbiamo porla nella prospettiva del nuovo gruppo, che deciderà il piano industriale e dunque le dislocazioni produttive, il volume di produzione e il numero di occupati. Mi domando se in questo dibattito non sia stata trascurata proprio questa incognita. Chi deciderà sugli impianti italiani sarà il management del nuovo gruppo, che ha una presenza dello Stato francese nel consiglio. Non solo, nel nuovo gruppo si sta rafforzando la componente del capitalismo familiare legato alla famiglia Peugeot, che ha approfittato della caduta dei valori di borsa per rafforzare la propria posizione azionaria»

ANSA/MASSIMO ALBERICO – Giuseppe Berta in occasione dell’apertura dell’archivio storico di Mediobanca, Roma, 19 novembre 2018

Si tratta di un problema che è stato sollevato, per esempio, da Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom, il quale ha chiesto garanzie sul prestito in questo senso.

«Se lo scopo del prestito è rafforzare o difendere gli impianti e la produzione italiana, non può essere limitato all’oggi, quando la cassa integrazione è così ampia, ma deve guardare al domani. E domani in questo caso vuol dire fare i conti con il nuovo gruppo, altrimenti parliamo solo del contingente e non allunghiamo lo sguardo»

Tra le altre condizioni da legare al prestito che vengono ipotizzate c’è la pubblicazione dei “country-by-country” report, per fare chiarezza sui conti dell’azienda, oppure – come chiede Carlo Calenda – il rimpatrio delle sue sedi fiscali e legali a Torino. Cosa ne pensa?

«Mi sembrano proposte modeste. Sappiamo tutti che i conti di Fiat Chrysler in Europa non sono buoni. Lo scorso anno ha realizzato circa 450 mila vetture, esclusi i veicoli commerciali. Mi permetto di dire che è un volume molto basso. Prima della grande crisi lo stabilimento di Barcellona faceva più di mezzo milioni di vetture. Se guardo alla mia città, Torino, nel 2018 Fiat-Chrysler ha realizzato 43 mila vetture, nel 2019 21 mila e quest’anno temo che sarà una cifra davvero risibile. Non possiamo andare avanti con questa perdita continua anno dopo anno. Penso sia necessario fissare un obiettivo più ambizioso del rilevamento dei dati fiscali che ovviamente, essendo la quota di Fiat-Chrysler in restringimento, non possono essere certo entusiasmanti. Sposterei piuttosto l’attenzione sulla necessità che la produzione automobilistica in Italia aumenti»

Ma la crisi nata dalla pandemia Covid non rappresenta un’occasione per raddrizzare alcune delle storture del sistema capitalistico, come il dumping fiscale?

«Non c’è dubbio. C’è una presenza così preponderante dello Stato sullo scenario economico – penso in primis agli Stati Uniti – che si pone di nuovo questo problema. Ma la questione a mio avviso riguarda la politica europea: ci vuole una politica per il settore automobilistico decisa dall’Unione europea e una per le imprese che non tolleri più regimi di privilegio come quello dell’Olanda, che fa sì che le aziende trasferiscano là la propria sede legale. Questo però è un problema che non può essere affrontato dai singoli stati, ma va definito in sede comunitaria, a Bruxelles. Altrimenti si perpetua un regime di disparità nel trattamento delle imprese tra le varie regioni ed è impossibile costruire una prospettiva per il futuro dell’Europa»

La FCA non è l’unica compagnia ad avere la sede legale in Olanda. Ci sono anche aziende partecipate dallo stato come Eni e Enel. La sorprende che la polemica riguardi soltanto loro?

«Sì, tante imprese hanno cercato soluzioni di convenienza, finché resta nei margini della legalità non mi meraviglia. Semmai dovrebbe essere oggetto di negoziazione tra le grandi imprese e i grandi gruppi e le loro nazioni d’origine, cosa che l’Italia non ha mai fatto. Ha manifestato così una completa e a volte colpevole indifferenza verso problemi di questo genere, ed è un po’ tardi farlo oggi, quando le condizioni non danno al nostro Paese grande potere per ristabilire le cose»

Nel frattempo la questione divide anche il Pd. Da una parte Andrea Orlando chiede il rimpatrio della sede fiscale della compagnia come condizione per “ingenti finanziamenti” da parte dello Stato italiano, dall’altra, Andrea Marcucci dice che si tratta di una “polemica sganciata dai fatti”. Teme ricadute politiche? E secondo lei perché la sinistra non ha una posizione univoca?

«Da quello che percepisco purtroppo non c’è una grande elaborazione di queste vicende – che sono i grandi temi della nostra epoca – da nessuna parte politica. Bisognerebbe invece avere una visione chiara sulle misure importanti e dare una risposta che non sia solo nell’ottica dell’emergenza. Conoscendo l’attenzione che lo stato francese pone in materia economica sulle sue partecipazioni dirette, non c’è da dubitare che la sua voce la faccia sentire tutti i giorni. Su questo riscontro in Italia un impressionante silenzio, mentre dovremmo avere la consapevolezza delle nostre risorse materiale e delle nostre potenzialità»

Tornando al presente, crede che le testate di proprietà del gruppo Exor, abbiano mantenuto la giusta imparzialità nell’affrontare questa complessa vicenda?

«C’è ovviamente un nervo scoperto da parte de La Stampa nell’affrontare le questioni legate agli interessi economici e finanziari del suo azionista. Un tempo invece c’era una dialettica in cui La Repubblica portava una voce critica. Il crinale tra lobbisti e giornalisti è sottile da sempre, ma oggi è un po’ più a rischio e credo che si stia eccedendo, dato che le prese di posizione sono troppo schierate a favore degli interessi dell’azionista. A tutto questo non posso che contrapporre il comportamento assolutamente rigoroso di un grande settimanale come l’Economist che non ha celato la posizione di debolezza sul fronte della liquidità di Fiat-Chrysler, pur avendo la società come suo azionista importante. Bisogna assolutamente evitare il rischio che ci si trasformi in qualcos’altro rispetto all’analisi che è propria del mestiere del giornalista»

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