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Dall’Uomo Qualunque a Salvini, il sogno ricorrente del governo dei competenti – Il commento

25 Maggio 2020 - 07:50 Umberto La Rocca
L'idea di affidare il governo del Paese a figure considerate più competenti che politiche è antica. E nonostante i frequenti tentativi falliti, c'è sempre chi, con la memoria corta, la tira fuori come la soluzione a ogni male

Lo so, l’incipit è trito e ritrito ma per stavolta passatemelo. Un fantasma si aggira per l’Italia: quello del governo dei competenti. Lo ha chiesto a gran voce Matteo Salvini per scardinare un quadro politico che lo vede relegato all’opposizione e indicando Mario Draghi come presidente del Consiglio; lo vuole Silvio Berlusconi immemore del fallito tentativo di costruirne uno nel ’94 e degli sforzi per strangolare quello di Monti che aveva scalzato il suo; lo rilancia da sinistra, seppure in forma edulcorata: «Siano tecnici o politici», il sindaco di Milano Giuseppe Sala che, non senza qualche titolo da giocarsi, forse ambirebbe a farne parte; ma soprattutto lo caldeggia una parte del mondo produttivo e dell’opinione pubblica.

Il ritornello secolare dei competenti

L’idea è tutt’altro che nuova. Qualcuno, sfidando i millenni, la fa risalire addirittura a Platone. In tempi assai più recenti, fra le due guerre mondiali, sedusse il leader socialista Henri De Man e tutta una corrente di pensiero che voleva sostituire “gli ingegneri” ai politici, come racconta in un bel libretto di parecchi anni fa Alfredo Salsano. E in Italia, nel secondo dopoguerra, pur con una coloritura marcatamente populista, fu il cavallo di battaglia dell’Uomo Qualunque, il movimento fondato da Guglielmo Giannini.

Da allora, la tentazione di affidare le redini a chi è davvero competente è corsa sotterranea, alimentata dal radicato sentimento antiparlamentare e antipolitico italiano. Fino a riaffiorare prepotente con Silvio Berlusconi e la discesa in campo nel 1994 all’insegna dello slogan «basta col teatrino della politica, il potere a chi viene dalla trincea del lavoro».

I “competenti” al governo dopo Tangentopoli

In realtà questo fantasma tanto fantasma quindi non è. Anche perchè l’Italia negli ultimi trent’anni è stata governata da svariati governi di competenti e tecnici. Il primo fu quello guidato da Giuliano Amato, nato sull’onda di Tangentopoli, con il Paese a rischio default e con la classe politica della Prima Repubblica già in rotta o quasi.

Prese provvedimenti giusti e impopolari. Durò meno di un anno, 305 giorni per la precisione, piegato dalla rabbiosa reazione di parte del mondo produttivo alla pretesa di far pagare le tasse a chi ancora non le pagava e dalle velleitarie speranze di rivincita dei partiti.

Fu sostituito dal primo esecutivo nella storia della Repubblica ad essere guidato da un non parlamentare, un competente anche lui, Carlo Azeglio Ciampi, che chiuse fra l’altro l’importante accordo sul costo del lavoro dell’estate del 1993. Ma anch’esso durò un anno o poco più, per cedere il passo alle elezioni del ’94 che incoronarono il Cavaliere di Arcore.

I professori agnelli con i politici lupi

Del programma berlusconiano si è detto. Il primo governo della nuova era comprendeva alcuni tecnici di valore, certo. Ma circondati da un pugno di avvocati di famiglia, da neofiti leghisti, da stagionati ex fascisti e da simpatici sopravvissuti della Prima Repubblica come Clemente Mastella, Publio Fiori e Francesco D’Onofrio. Pochi mesi al potere, e spesi male, fino al “golpe” ordito da D’Alema, Bossi e Buttiglione.

Con gran delusione, proprio nei confronti dei tecnici, del Cavaliere che un anno dopo confessava: «Questi che vengono dalla trincea del lavoro… di politica non capiscono niente. In Parlamento Violante si toglie la giacca, si rimbocca le maniche e se li mangia a spezzatino in cinque minuti. Con tutta la nuova classe dirigente che ho portato a Roma chi sono i miei unici consiglieri di valore? Gianni Letta e Giuliano Ferrara che hanno fatto tanto nella vita, ma lavorare…».

Del governo Dini, altro esecutivo tecnico, non varrebbe neanche la pena di parlare. Imbottito di ministri scelti dai partiti, aprì i battenti per far fuori Berlusconi e li chiuse dopo un anno con un provvedimento che distribuiva soldi a pioggia ai dipendenti pubblici in vista delle elezioni. I vecchi politici democristiani non avrebbero saputo far meglio. Qualche parola in più merita invece il governo guidato da Mario Monti, entrato in carica alla fine del 2011 grazie a un’altra operazione politica ai limiti del dettato costituzionale, orchestrata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ancora una volta per sloggiare Berlusconi da Palazzo Chigi.

Il governo Monti prese decisioni importanti per mettere in sicurezza finanziaria il Paese, ma si mosse con timidezza sulle riforme e dopo un anno e cinque mesi cedette senza combattere ai veti incrociati e agli appetiti dei partiti che lo sostenevano. E fu la miglior prova che un eccellente tecnico può essere spesso un mediocre politico, come dimostrano il breve tragitto e la malinconica diaspora del movimento fondato e capeggiato da Monti negli anni seguenti.

I tecnici senza voti

Insomma, tutti i governi dei competenti che abbiamo sperimentato o hanno fallito o sono durati poco o entrambe le cose. Le ragioni sono due. In un Paese come il nostro da decenni in affanno, con un Pil che cresce assai meno della media europea, dove burocrazia e insofferenza delle regole si danno la mano, con infrastrutture vecchie e investimenti risibili nella ricerca, non c’è competente che non vada a Palazzo Chigi convinto della necessità di cambiare le cose.

Ma cambiare le cose significa scontrarsi con gli interessi forti e radicati dei tanti che in questa situazione di affanno si sono ritagliati una rendita di posizione. E l’esperienza insegna che nello scontro a rimetterci le penne è il competente e il suo governo. Perché, capisco non sia facile, ma per riformare un paese democratico serve il consenso.

Ed ecco la ragione numero due: saper creare consenso attorno a un progetto è una virtù politica. Anzi, è la dote principale di un politico che opera in uno Stato democratico. E non è affatto detto che chi è competente nel suo campo la possieda. Per metterla giù dura, non c’è alcuna certezza che Mario Draghi, personalità fra le più autorevoli del nostro Paese ed eccellente governatore della Banca centrale europea, sarebbe anche un buon presidente del Consiglio.

Meglio ripensarci

Non si può dare torto a Graziano Delrio quando dubita che l’attuale governo guidato da Conte (che peraltro nasce come tecnico) abbia una visione chiara e complessiva alla quale ispirare la propria azione. Non ce l’ha. O, perlomeno, finora l’ha tenuta nascosta in un cassetto. Ma l’alternativa non è un governo di competenti. È un governo politico con un programma chiaro, sostenuto da una maggioranza larga e il più possibile omogenea e guidato da un leader politico capace di creare consenso attorno alle riforme. Facile a dirsi, lo so, molto più difficile a farsi. Ma almeno non è un sogno ricorrente che la realtà si è già incaricata di dissolvere. O, peggio, un alibi per lasciare le cose come stanno.

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