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Caso Regeni, la Procura di Roma indaga su altri cinque 007 egiziani. Di Stefano: «Ritiro ambasciatore non è una soluzione»

02 Luglio 2020 - 14:35 Marco Assab
Dopo il nulla di fatto nella videoconferenza tra procure di ieri la Farnesina ha chiesto un cambio di passo. Intanto proseguono le indagini dei pm di Roma

Si va avanti, a fatica, contro un muro di omertà, ma si va comunque avanti per avere giustizia e verità sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e assassinato al Cairo, in Egitto, nel febbraio del 2016. Più di quattro anni non sono ancora bastati. I silenzi e gli ostruzionismi delle autorità egiziane hanno complicato non poco il lavoro della Procura di Roma.

Dopo l’incontro in teleconferenza con gli omologhi del Cairo, finito in un sostanziale nulla di fatto, i magistrati romani stanno svolgendo accertamenti su altri uomini, almeno cinque, appartenenti agli apparati di sicurezza egiziani. Nomi che vanno ad aggiungersi agli ufficiali già iscritti nel registro degli indagati dal pm Sergio Colaiocco il 4 dicembre del 2018 con l’accusa di sequestro di persona.

La rogatoria del 2019

La Procura di Roma è arrivata a questi nuovi cinque nomi grazie ai tabulati telefonici forniti dalle autorità egiziane nei mesi scorsi. Tra i dodici punti della rogatoria inviata nel maggio del 2019 dai magistrati di piazzale Clodio, si fa riferimento in termini generici ad altre persone, oltre ai soggetti già identificati, coinvolti nella vicenda di Regeni. In particolare si chiedeva di «mettere a fuoco il ruolo di altri soggetti della National Security che risultano in stretti rapporti con gli attuali cinque indagati».

Di Stefano: «Ritiro ambasciatore non è una soluzione»

Intanto fanno discutere le parole del sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, ospite oggi di Radio 24 (M5s): «Non credo che il ritiro dell’ambasciatore sia una soluzione, non l’ho mai creduto per un semplice motivo: l’ambasciatore è sostanzialmente il rappresentante del suo Paese in un altro Paese. Se si toglie l’ambasciatore di fatto si finisce di dialogare, ma a noi interessa dialogare perché dobbiamo avere la verità su Regeni». «Le pressioni – ha proseguito – si fanno in mille modi, non si fanno certamente togliendo l’ambasciatore».

Parole che arrivano all’indomani della richiesta di ritiro da parte della famiglia del ricercatore ucciso, a seguito dell’ennesimo nulla di fatto dopo la videoconferenza tra gli uffici giudiziari di Roma e del Cairo. La Farnesina aveva parlato di «forte delusione per l’esito dell’incontro tra le due procure», esigendo un cambio di passo. Cambio di passo che però non si capisce bene come dovrebbe arrivare.

Palazzotto: «Buone relazioni non portano a risultati»

Duro invece il commento del deputato di Leu Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione d’inchiesta Regeni: «I magistrati egiziani non hanno nessun interesse nella ricerca della verità – ha detto in una intervista alla Stampa -. Vedo un altro tentativo indiretto di depistaggio, sono tornati indietro a quando cercavano nel lavoro di Giulio le ragioni della sua morte».

«Personalmente ritengo che la famiglia faccia benissimo a chiedere al governo un impegno maggiore, che si tratti dell’ambasciatore o dei rapporti commerciali. Si era tanto detto che avere buone relazioni avrebbe portato dei risultati e invece oggi abbiamo la prova, se ancora ne servisse una, che non è così».

I rapporti economici tra Italia ed Egitto

Sullo sfondo dell’intera vicenda gravano, immancabili, i rapporti economici tra Italia ed Egitto. Aveva fatto molto discutere lo scorso 8 giugno la notizia del via libera, in Cdm, alla vendita di due fregate Fremm all’Egitto. Mossa considerata da molti come poco opportuna, visto lo stallo in cui versa la ricerca della verità per il ricercatore italiano ucciso quattro anni fa.

L’iniziativa, votata all’unanimità in consiglio dei ministri e seguita nei mesi precedenti dal titolare della Difesa Lorenzo Guerini (Pd), tra gli altri, aveva suscitato la dura reazione dell’ex presidente del Partito democratico Matteo Orfini, che sentito da Open aveva definito la decisione come «sbagliata e inaccettabile», confermando la possibilità di poter ancora porvi rimedio, visto che quello del Consiglio dei ministri non era un via libera formale.

Caso Zaki ancora in stallo

E poi c’è sempre, in completo stallo, il caso dell’attivista per i diritti umani e studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, da mesi imprigionato in Egitto nonostante i ripetuti appelli per la sua liberazione. Un arresto che, similmente ad altri, sembra evidenziare e confermare come stia diventando sempre più aspro l’atteggiamento repressivo portato avanti dal governo del Cairo. Il 17 giugno scorso l’ultimo duro colpo: nell’udienza per la scarcerazione dal complesso di Tora, i giudici hanno deciso di prolungare la detenzione preventiva per lo studente di altri 15 giorni.

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