Pagati 7 euro ad articolo, scioperano i precari del Messaggero: viaggio fra i “rider” dell’informazione (di cui i giornali non parlano)

Il caso dei tagli ai collaboratori del Messaggero ha fatto esplodere la polemica. Ma in Italia il lavoro precario riguarda la stragrande maggioranza dei giornalisti

Alla fine i rider dell’informazione hanno detto basta. I braccianti del giornalismo si sono ribellati. È un giorno di metà giugno quando i collaboratori de Il Messaggero cartaceo, entrando come sempre nel sistema per caricare gli articoli, si trovano di fronte a un comunicato. O meglio, un aut aut. A pochi giorni dalla chiusura di un piano di crisi, l’amministrazione del giornale aveva disposto il taglio dei compensi agli esterni.


Dal 16 luglio, per le redazioni locali, il pagamento sarebbe stato di 7 euro lordi (invece di 9) per i pezzi tra le 900 e le 2500 battute, di 15 fino alle 3.500 e di 30 oltre le 3.500. Per le edizioni nazionali, le tariffe sarebbero andate da 13 euro fino a 2.500 battute, a 26 euro fino a 3.500 e 39 per gli articoli più lunghi. L’unico modo per continuare la collaborazione è, a quel punto, accettare le nuove condizioni retributive.


L’8 luglio, poi, i giornalisti esterni ricevono un’email a firma del neodirettore Massimo Martinelli. Ancora una volta, i professionisti vengono invitati ad accettare le imminenti disposizioni: «Siamo un giornale sano – c’è scritto nella lettera – grazie soprattutto al senso di responsabilità e ai sacrifici che sappiamo fare per continuare a svolgere il nostro lavoro». Non avendo alternative, i collaboratori accettano. Nell’arco di qualche giorno, però, organizzano un’assemblea, indicono uno sciopero di tre giorni e riescono a riscuotere attenzione da sindacato e istituzioni.

La prima notizia è che una categoria come i giornalisti freelance, per definizione frammentata, disomogenea e quindi ricattabile, sia riuscita a fare fronte comune in un giornale così importante. Un esempio ugualmente recente, ma con meno eco mediatico, aveva riguardato i collaboratori di Radio Popolare. Già nel 2006, poi, la stessa mobilitazione era stata organizzata dai freelance de La Nazione, che si erano trovati davanti a dei tagli ancora più consistenti.

Ma i collaboratori de Il Messaggero sono riusciti anche in altre due imprese non scontate: hanno ricevuto supporto immediato dal governo (che ha chiesto un confronto, rifiutato, a Caltagirone), dalle rappresentanze sindacali e dall’Ordine dei giornalisti, e hanno alzato un polverone mediatico sul grande segreto pubblico dell’informazione: anche i giornalisti – giovani e non – devono fare i conti con il deprezzamento del lavoro.

La situazione dei collaboratori e lo stato dei quotidiani

Nella redazione del Messaggero cartaceo i collaboratori esterni sono circa un’ottantina, a fronte di un numero pressoché uguale di redattori assunti. Una parte consistente degli articoli che compaiono sul giornale sono dunque prodotti da loro. «Parlano di fare sacrifici nel nome del giornale», dice uno dei partecipanti all’assemblea che per tutelarsi chiede l’anonimato –  visto il clima che si respira. «Ma noi cosa gli dobbiamo? Siamo co.co.co o partite iva mascherate, lavoriamo tutto il giorno e, attraverso le redazioni locali, mandiamo avanti tutta la baracca senza essere inquadrati nel contratto collettivo».

Martinelli, che si è insediato lo scorso 6 luglio, ha dichiarato di non avere niente da dire in merito a questa vicenda. Né a Open che lo ha contattato, né ai collaboratori che gli avevano chiesto un incontro. Il contesto dei tagli si inserisce in quello che è un periodo critico per l’editoria cartacea. Il gruppo Data Media Hub ha pubblicato una serie di elaborazioni grafiche basate sui dati Istat e dell’Ads, in cui si evidenzia il progressivo crollo dei lettori, delle vendite e degli investimenti pubblicitari.

Fabrizio Carotti, direttore della Federazione Italiana Editori Giornali (Fieg) – l’ente che ha firmato, con Fnsi, il contratto collettivo dei giornalisti – spiega il contesto in maniera esplicita: solo nel primo semestre di quest’anno le perdite nel settore ammontano a circa 400 milioni di euro. Nella situazione di crisi generale – riduzione delle foliazioni, prepensionamenti, tagli generali – a farne le spese sono soprattutto i freelance (volontari o no) che affrontano le difficoltà economiche sprovvisti di qualsiasi tipo di sussidio.

Ma se il giornale non è responsabile delle mancanze del governo (la legge sugli autonomi del 2016 manca ancora dei decreti attuativi), pare difficile giustificare – quantomeno – la volontà esplicita di non inquadrare i collaboratori nel contratto.

Dati dell’Ads elaborati da DataMediaHub

Un tema è poi quello della figura del direttore e della sua trasformazione nel corso del tempo. Sempre più spesso, secondo le testimonianze dei sindacati, i direttori non si concentrano unicamente nel ricoprire il ruolo assegnatogli dall’articolo 6 del contratto – e cioè organizzare e tutelare, da giornalista, il lavoro dei colleghi – ma sono chiamati sempre di più a svolgere il ruolo dei dirigenti d’azienda. Una criticità che lo stesso Carotti riconosce («non possono occuparsi di affari che non li riguardano»): la soluzione, per Fieg, sarebbe quella di una figura “cuscinetto” che affianchi il direttore nella gestione dei costi e delle risorse.

Il fantasma del collaboratore esterno

«Sono una tra migliaia». Basta poco per far parlare anche chi con Il Messaggero non ha nulla a che vedere, ma che può portare lo stesso esempio di difficoltà. A raccontare la sua storia è, tra gli altri, Sandra Figliuolo, giornalista siciliana che da anni cerca di districarsi nel labirinto del precariato. «L’ho vissuto sulla mia pelle», scrive su Facebook. «Sono entrata al Giornale di Sicilia nel 2003 e un pezzo mi veniva pagato 3,10 euro. Nel 2009, quando ho iniziato a occuparmi di cronaca giudiziaria, il compenso è passato a 5 euro, fino ad arrivare a 10 euro lordi nel 2017. […] Nel 2019, a 41 anni, con una laurea e 17 anni di mestiere, mi sono ritrovata con un reddito di poco inferiore agli 8.500 euro».

E punta l’indice contro il silenzio dei giornali (e dei comitati di redazione) che, così prolifici nel raccontare storie di rider e braccianti, quando si tratta di precari dell’informazione 《diventano improvvisamente muti e tacciono fino a sfiorare l’omertà》.

Il caso Messaggero è sicuramente fuori dal comune per quanto riguarda la piega assembleare che ha preso la faccenda e l’interesse che ha suscitato. Ma dal punto di vista delle premesse, quel che è accaduto nella redazione non è che la punta dell’iceberg. Nella situazione attuale, migliaia di giornalisti aspettano in silenzio – e in affanno – un contratto che però non arriverà mai: attualmente, stando ai dati della Federazione nazionale della stampa, 3 giornalisti su 4 sono freelance e lo rimarranno.

O meglio, sono autonomi dal punto di vista fiscale, ma, di fatto, ogni giorni ricevono incarichi precisi dalle redazioni con cui collaborano (e che spesso sono anche le uniche committenti). Dei redattori fantasma, insomma.

«Siamo disarmati, ma non possiamo stare a guardare», dice il collaboratore anonimo. In linea teorica, e a differenza dei professionisti degli altri settori, i collaboratori esterni non dovrebbero vivere nel limbo delle partite iva. Dal 2014 esiste un accordo Fieg-Fnsi che regola il lavoro autonomo dei giornalisti. Prevede, tra le altre cose, rimborsi spese (ad esempio per gli spostamenti) e stipendi a 30 giorni invece che a 60 come per i freelance.

Ma Mattia Motta, vicesegretario Fnsi che fin dall’inizio sta seguendo la questione del Messaggero, spiega che non ha notizia di alcuna testata che abbia mai applicato quell’accordo. «Finché l’editore potrà risparmiare con un co.co.co, non gli verrà mai in mente di investire sulle tutele», dice.

Attualmente, ci sono migliaia di giornalisti falsi autonomi che, di fatto, lavorano quotidianamente per un singolo editore a tariffe misere. La media è di circa 800 euro al mese e, con i tagli, passerebbe ad essere intorno ai 600/700. Per quanto riguarda il compenso annuo – stando all’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti – si parla di una media di 8mila euro.

E di fantasmi ce ne sono a bizzeffe tra i giornalisti, non solo tra gli esterni. Su 120mila iscritti all’Ordine, spiega Motta, solo la metà di questi è attivo. Di questi, ancora, solo 9mila sono assunti a tutti gli effetti – e, cioè, hanno le tutele previste da contratto. Altri 35mila sono invece iscritti alla gestione separata. In altre parole, «precari attivi che costituiscono una platea di collaboratori che tengono in piedi i giornali, soprattutto locali».

Queste persone, non essendo inquadrate nel contratto, sono difficilmente difendibili dal punto di vista sindacale. Fabio Rossi, uno dei componenti del Comitato di redazione del Messaggero, l’organismo di rappresentanza sindacale dei giornalisti dipendenti, accetta di commentare. Spiega che il Cdr non ha alcun potere sulle questioni che riguardano i precari ma che proverà a fare di tutto per «tutelare questo patrimonio indispensabile».

La difficoltà di rappresentare i diritti e gli interessi dei precari si estende anche alla Fnsi, che ora, tramite l’istituzione della Commissione sull’equo compenso per opera del sottosegretario all’Editoria Andrea Martella, sta cercando di portare a casa una delibera risolutiva.

Rider dell’informazione

«Oggi la retribuzione di un collaboratore coordinato e continuativo equivale a un sesto della retribuzione di un redattore ordinario», dice Raffaele Lorusso, segretario Fnsi. «E nella stragrande maggioranza dei casi svolgono la stessa mole di lavoro. Ci sono giornalisti che sono lasciati soli proprio come i riders, ma di cui non si parla mai». Un ultimo esempio riguarda le condizioni di lavoro durante l’emergenza Covid-19, che li ha visti in prima fila sul campo senza avere a disposizione le condizioni di sicurezza necessarie.

È chiaro – spiega ancora Motta – che tutto questo contribuisce a mantenere intatta l’immagine distorta del giornalismo come una professione di élite. Ma in un senso totalmente opposto a quello che si crede: alle lunghe, le uniche persone che potranno continuare a fare questo mestiere saranno quelle che non hanno realmente bisogno di lavorare per vivere. Finché queste battaglie per l’equo compenso rimarranno latenti e «finché si avranno professionisti che lavorano non tanto per il guadagno ma per la firma sul giornale», la situazione resterà bloccata.

Stessa sorte, se non peggiore, per il giornalismo online. Per quanto riguarda il mondo del digitale, la questione non sta peggiorando solo perché è nata già esasperata. La giungla dei contratti online non è stata risolta nemmeno dal contratto Uspi – che non è stato rinnovato. Migliaia di giornalisti continuano a lavorare a prezzi bassi o anche gratuitamente su testate di ogni genere. «Se continuiamo a trattarli come braccianti dell’informazione – dice Motta – l’approccio giornalistico si confonderà sempre con la rete dei blogger. E le due professioni invece sono, tecnicamente, ben distinte».

Il futuro della democrazia è legato al prezzo del lavoro

Lo stato dell’informazione di un Paese è, inevitabilmente, legato alla sua vita civile e politica. Se un giornalista prende 7 euro lordi per un pezzo non è solo un problema per la categoria: è un problema per la cittadinanza. In un rapporto Agcom del 2017 emerge che tra i principali problemi del giornalismo c’è la precarietà del lavoro che ha reso più ricattabile chi fa questo mestiere. Oltretutto, l’aumento esponenziale di querele nei confronti di giornalisti precari – costretti a risarcimenti danni enormi a fronte di tariffe e paghe irrisorie – costringe i professionisti a rimanere in una regione d’ombra.

«La minaccia di ripercussioni di tipo legale – si legge nel rapporto – inducendo timore, porta all’autocensura e conduce all’impoverimento del pluralismo delle informazioni e, in ultima istanza, del dibattito pubblico, a discapito della democrazia nel suo complesso». Le criticità economiche della professione giornalistica, quindi , hanno evidenti – e ovvie – «ripercussioni sulla qualità del lavoro informativo».

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