Il filosofo dei millennial Emanuele Coccia: «Liberiamoci dalla gabbia delle generazioni. I modelli? non esistono»

Tra i progetti futuri dello studioso c’è la ricerca di nuovi modi per divulgare e diffondere cultura: Instagram, per esempio

Ogni epoca ha i suoi personaggi di riferimento. Idoli, cantanti, attori, storici, politici. Ma sono soprattutto le generazioni a dare un valore a quei personaggi. E nell’epoca dei Millennials, uno dei riferimenti culturali dei più giovani è il filosofo Emanuele Coccia: 44 anni, insegna alla École des hautes études en sciences sociales a Parigi.


È uno dei filosofi più quotati, qui in Italia, ma anche all’estero, e oggi – 24 luglio – interviene al festival Tones on the Stones per parlare del suo ultimo libro, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (Il Mulino). Occhiali neri, squadrati, porta la filosofia in giro per il mondo insieme alle sue camicie fiorate e le sue cravatte colorate.


Apprezzato dagli under 35 per il suo linguaggio schietto, senza fronzoli, mischia la materia “alta”, finemente intellettuale, i temi ambientali – cui è particolarmente sensibile – ai temi di ogni giorno, e lo fa senza troppi giri di parole.

Mentre il mondo tenta a singhiozzo di uscire dalla pandemia Covid, Coccia sa già che, per il futuro, «saremo una specie che ha bisogno di instaurare con le forme di vita da cui dipende una relazione più armoniosa: meno violenta, meno unilaterale e soprattutto più ludica, in entrambi i sensi».

Dunque, professore, cosa saremo dopo il Covid?

«Dovremmo imparare anche noi a diventare la specie compagna di qualche altra specie – il cane o il gatto di qualche altra forma di vita, anzi di mille altre forme di vita. Facciamoci adottare da altre specie invece di voler essere i distruttori o i salvatori del mondo».  

Possiamo immaginare un futuro “verde” per l’umanità?

«Il futuro dell’umanità, così come quella di qualunque altra specie, è in ogni caso quello di trasformarsi in un’altra specie, di diventare altro. La filosofia e la città sono stati fino a ora esercizi di purezza specifica: una forma di conoscenza e una serie di strutture che dovevano distillare l’umanità pura, quintessenziale, per separarla dal resto. Il futuro non è solo green, il futuro deve essere multispecifico: riscoprire tutta la biodiversità in noi, il fatto che non siamo una specie pura ma uno zoo ambulante, un patchwork di pezzi appartenuti ad altre specie e che apparterranno ad altre specie.

Bisogna inventare conoscenze che ci permettano di pensarci diversamente – come una forma di vita ibrida che non può fare a meno di altre forme di vita e che ha bisogno continuamente di vivere con e attraverso altre specie. E bisognerà soprattutto costruire le città diversamente: le nostre città sono esercizi di monocultura che raggruppano donne e uomini su un suolo minerale. È letteralmente un progetto di desertificazione. Più si allargheranno le città ad altre specie più futuro ci sarà per l’umanità». 

Per molti lettori lei è considerato un punto di riferimento intellettuale, una bella responsabilità. 

«Non sono mai stato un modello per me stesso. Non esistono più modelli ed è inutile cercarli. La trasformazione biologica, climatica, politica e tecnologica subita dalla Terra negli ultimi decenni hanno reso il mondo irriconoscibile, e la stragrande maggioranza dei saperi e dei modelli di cui ci nutrivamo del tutto obsoleti. Siamo su un pianeta divenuto totalmente sconosciuto, e noi stessi che di questo pianeta siamo parti ed espressioni siamo diventati irriconoscibili.

Siamo tutte e tutti nuovi pionieri, nuove Eve e nuovi Adami chiamati a esplorare il mondo, a dare nomi ai viventi e alle cose, a scottarci la lingua gustando sapori che nessuno ha mai gustato a sbucciarci le ginocchia percorrendo territori fino a ora inabitati. Ma a differenza del mito biblico siamo noi a dover trasformare questi spazi in un giardino abitabile».   

Perché si é conquistato un posto così di rilievo tra i millennial? Che cosa, secondo lei, li ha convinti del suo modo di comunicare?

«Si scrive per essere capiti da tutti. Bisognerebbe liberarsi definitivamente dell’idea di generazione. La generazione è da un punto di vista sociologico l’equivalente del dialetto o peggio ancora del gergo: l’idea che vi sia una conoscenza, un’esperienza a volte addirittura un segreto che non sia comunicabile perché legato a un’appartenenza a un luogo o a un gruppo.

In questo caso l’appartenenza è a un tempo, il tempo della propria nascita. È un’idea che ha avuto la sua funzione a partire dal Romanticismo, che aveva affidato ai ventenni il compito e la volontà di cambiare le regole culturali e sociali di una comunità».

È ancora una questione generazionale?

«Ora non è più così, e non potrà più essere così, per mille ragioni politiche e tecnologiche. Liberiamoci di questa idea che di per sé è fascista e oscurantista. Il mio corpo è fatto di pezzi intergenerazionali: se è cosi per la biologia perché non dovrebbe essere per la cultura. Tutta la nostra cultura è fatta di elementi che hanno età diverse e che si mescolano. Non c’è nulla che sia riconducibile esclusivamente a un’epoca precisa né a un’età determinata. Tutti costrutti culturali sono un po’ come i templi giapponesi i cui pezzi vengono da età e da epoche diverse».

In un’intervista ha dichiarato, parlando dell’attuale situazione e quindi della pandemia, che «il futuro è come la malattia dell’identità, il cancro del presente: costringe tutti gli esseri viventi a metamorfosi. Bisogna quindi ammalarsi, lasciarsi contaminare, possibilmente morire, per lasciare che la vita faccia il suo corso e dia origine al futuro». Potrei dirle che questo non ha nulla di rassicurante per molti…

«Immagino che ogni volta che un bruco costruisce un bozzolo e ci si chiude per iniziare il processo di metamorfosi non provi sentimenti rassicuranti: in quella camera che ha le sue stesse dimensioni dovrà distruggere parti del suo corpo e ricostruirne altre. Ogni metamorfosi è una scommessa. Rimanere immobili ed esposti a chiunque. Il rischio è enorme. Eppure la metamorfosi stessa e i suoi risultati sono tra i miracoli più incredibili di cui si possa fare esperienza: chi non si commuove davanti a una farfalla?

E chi non si stupisce pensando che quell’essere che vola è stato un giorno una serie di tubi digestivi appoggiata a delle zampe capace solo di strisciare? La nostra vita non è diversa da quella di un bruco. Non abbiamo scelta: la vita è sempre e solo metamorfosi. E avere paura della metamorfosi significa avere paura della vita. Stiamo attraversando una delle più grandi metamorfosi planetarie degli ultimi secoli. Sta a noi fare di questi giorni il bozzolo per uscirne come una farfalla». 

Com’è l’Italia vista dall’estero in questo ultimo periodo storico?

«L’Italia, come tutti i paesi occidentali è vittima dei rottami di quella strana forma di astrologia invertita che è lo stato-nazione: l’idea che l’identità politica di un individuo sia legata a vita a una porzione arbitraria di quel corpo astrale  che chiamiamo Terra, proprio come nell’astrologia si crede che il nostro destino sia legato in maniera arbitraria a un pezzo di cielo.

Non c’è più nulla che corrisponda a questa superstizione: non la demografia, ormai ridisegnata dalle migrazioni planetarie, non la produzione della ricchezza e l’economia, che ormai seguono circuiti diversi, non la cultura, che non ha nulla di territoriale, non l’agricoltura, che è da sempre stata la testimonianza della circolazione internazionale del cibo e delle piante.

Il compito che ci aspetta è quello di pensare la politica al di là dello stato nazione: non misurare più le nostre identità ma anche le ricchezze, i diritti, i patrimoni e i doveri in funzione di una geometria immaginaria del suolo; inventare una nuova identità politica a partire dalla possibilità di cambiar luogo, di spostarsi, di associarsi con altre vite; pensare al pianeta come alla sola possibile patria e a tutte le specie come possibili cittadini». 

Progetti per il futuro? 

«Nel futuro vorrei inventare delle modalità che permettano all’insegnamento e alla ricerca di invadere luoghi diversi dalle università: la cultura deve appropriarsi degli spazi più diversi, dai musei a Instagram, dai negozi di abbigliamento alle piazze. Abbiamo bisogno di fare ricerca ovunque, a ogni momento, in ogni luogo». 

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