Le telefonate per evitare i controlli sulla droga e gli arresti fotocopia. Così Montella “dirigeva” la caserma di Piacenza

Gli spacciatori erano tutti colti in flagranza di reato, a pochi passi dalla caserma e con un atteggiamento “aggressivo”

Un pusher pentito. La confessione. E l’inizio dell’inchiesta. Torture, botte, minacce, orge e festini. Ma anche spaccio di droga. Sulla caserma dei carabinieri di Piacenza cominciano a emergere ora più chiaramente i legami tra i protagonisti della vicenda – l’appuntato Giuseppe Montella in testa che ha risposto alle domande dei pm dalle 11.30 di oggi, un interrogatorio di garanzia che dura oltre tre ore – e il traffico di stupefacenti. Dei suoi contatti con i pusher della provincia piacentina si trova traccia anche sui social. Ma – rilevano le carte dell’inchiesta – nessuna segnalazione da parte dei superiori. In questa rete di spaccio c’è anche la compagna di Montella, Maria Luisa Cattaneo, ora ai domiciliari. Con lui organizza il trasporto che arriva fino alla periferia milanese. Quello che fa Montella è occuparsi della scorta e tutela del trasporto di stupefacenti, affidato ai fratelli Matteo e Simone Giardino. Ed è proprio la sua posizione all’interno dell’Arma – secondo i procuratori – a permettergli di verificare la presenza di eventuali pattuglie lungo il tragitto. Tanto che Montella coinvolge anche un amico finanziare del nucleo cinofili informandolo della presenza di una pattuglia “mirata”.


Gli arresti dei pusher

Sono sempre Montella e la sua squadra che trovano gli spacciatori e li arrestano in serie, con ritmi sempre più serrati. Le circostanze sono sempre simili: stando ai verbali firmati da quelli della Levante, i pusher si troverebbero sempre nei pressi della caserma, sarebbero stati praticamente tutti colti in flagranza di reato (quindi per il carabiniere scatta l’obbligo di arresto immediato) e sarebbero tutti aggressivi, ragion per cui i militari rispondono con forza, un modo, ovviamente, per giustificare i segni di percosse. Gli arresti si moltiplicano, «quasi uno a settimana», segnano le cronache locali del 2017, e il canovaccio è sempre lo stesso, scrive la Repubblica. Il primo a insospettirsi di quegli arresti fotocopia è il comandante provinciale, il colonnello Stefano Piras. «Un appuntato, senza la supervisione di un superiore, non può effettuare indagini anche banali come possono essere quelle sullo spaccio», ha spiegato un investigatore a la Repubblica. Dal 2018 al 2019 dopo il commento di Piras, l’appuntato Montella riduce le operazioni. Ma a partire da marzo 2020, proprio in fase lockdown, il nuovo comandante provinciale lamenta il basso numero di arresti. E così l’incubo della caserma Levante ricomincia e riprendono i pestaggi e le torture.


Falanga respinge le accuse

Prima di Montella sono stati interrogati altri due militari: Cappellano, che viene descritto dagli inquirenti come il più violento del gruppo, e poi Giacomo Falanga. «Una vincita al gratta e vinci 5 anni fa, nulla a che vedere con Gomorra», dice riferendosi alla foto con i soldi in mano accanto a due spacciatori. Nessuna violenza, «una spacconata di Montella. È caduto durante l’inseguimento», aggiunge parlando per esempio di una persona di origine nigeriana. È «molto provato» e respinge insomma tutte le accuse Falanga. Secondo il suo legale, Daniele Mancini, Falanga «ha risposto a tutte le domande e ha fornito tutte le delucidazioni sugli episodi che lo riguardano. Ha un tenore di vita normalissimo e nessun indizio che lo colleghi alla droga». Quello che accadeva, se accadeva, era a sua insaputa insomma. Certo, Falanga ha partecipato alle operazioni di arresto e alla loro pianificazione, «ma non sapeva cosa c’era a monte».

«Principalmente parlavo con Montella, il quale mi diceva che comunque tutti gli altri carabinieri della stazione erano ‘sotto la sua cappella’, compreso il comandante Orlando… alcune volte ho parlato anche con Falanga», raccontava a gennaio agli investigatori il giovane pusher marocchino che passava le informazioni ai carabinieri infedeli della caserma Levante di Piacenza, parlando di Giuseppe Montella, che aveva conosciuto già molti anni prima. Lui aveva inviato messaggi audio al maggiore Rocco Papaleo fatti poi ascoltare da quest’ultimo alla polizia locale di Piacenza. Lo spacciatore veniva ripagato per le sue soffiate da Montella – secondo quanto emerge dalle carte dei pm – o con dosi di droga sequestrata o in denaro. «Non ho più visto da quando mi aveva picchiato in caserma», dice il ragazzo agli inquirenti. Ma «mi ha mandato un messaggio su Facebook dove mi diceva di smetterla di dire cose sul suo conto perché mi conveniva».

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