Coronavirus, cosa non funziona nelle Ats? La storia di Elisa e Nicola, due quarantene diverse sotto lo stesso tetto

Un mese di mancate comunicazioni, ritardi nei tamponi e indicazioni contraddittorie: due ragazzi positivi raccontano i problemi avuti con Ats Milano

È già passato un mese da quando è iniziato l’isolamento domiciliare, ma non sono ancora chiari i criteri secondo cui i due casi, strettamente collegati, sono trattati in maniera differente dalle autorità sanitarie. Elisa e Nicola, la prima settimana di agosto, sono stati in vacanza in Francia. La situazione epidemica nel Paese era ancora relativamente tranquilla: rispetto al 4 settembre, giorno in cui si è registrato un record di nuovi casi di Coronavirus, pari a 8.975, i contagi giornalieri viaggiavano poco sopra quota mille.


Tornata in Italia, a Milano, la coppia ha iniziato a vivere «un incubo» di burocrazia e senso di abbandono. «Insistere affinché una persona positiva esca di casa e attraversi chilometri di città a piedi o su mezzi pubblici per sottoporsi a tampone. Non riuscire a coordinarsi per somministrare i test allo stesso nucleo famigliare in una sola data. Comunicazioni sbagliate sul numero di giorni della quarantena». E attese, tante attese: la storia di Elisa e Nicola si scontra con un sistema di monitoraggio e controllo che non è ancora rodato, nonostante la prima fase dell’epidemia si sia conclusa da un pezzo.


Ogni volta che il meccanismo si inceppa e, almeno nel loro caso, è successo spesso, il Coronavirus ha una chance in più per diffondersi. «Ho contratto la Covid in Francia», spiega Elisa. Dopo qualche giorno la ragazza ha iniziato ad accusare i sintomi della malattia: qualche linea di febbre e un po’ di tosse. «Siamo stati a un matrimonio di amici. Dopo quattro giorni, quando abbiamo saputo che alcuni invitati erano risultati positivi, abbiamo fatto il tampone in Francia». Era l’8 agosto e, in accordo con i medici, i due hanno fatto rientro in Italia e hanno iniziato il periodo di isolamento domiciliare.

Quando avete avuto la certezza di essere positivi al Sars-CoV-2?

Elisa: «Il 10 agosto. Io risultavo positiva, mentre il tampone di Nicola era negativo. Ho chiamato subito il mio medico di base, il quale non sapeva come comportarsi e mi ha detto che mi avrebbe richiamato. Per non aspettare – la sua telefonata arriverà il giorno dopo – ho chiesto al medico di base di Nicola di fare la segnalazione all’Ats anche per me».

Nicola: «Elisa è stata segnalata come paziente Covid, io come contatto stretto. Per entrambi è stata disposta una quarantena di 14 giorni. Abbiamo provato a vivere isolati, ma la casa non è grande e il bagno è uno solo. Le procedure, ad ogni modo, sarebbero state portate avanti separatamente: al termine dei 14 giorni io dovevo essere sottoposto a un solo tampone per verificare che non mi fossi positivizzato, lei a due test a breve distanza l’uno dall’altro».

Questo ve l’ha detto uno dei due medici di base. Quando avete avuto il primo contatto con l’Ats?

Elisa: «Sono stata chiamata dall’Ats tre, forse quattro giorni dopo la segnalazione, nonostante il medico di base mi aveva assicurato che sarei stata contattata subito per l’indagine epidemiologica e per fissare l’appuntamento per i tamponi di fine quarantena. Quando ho spiegato la mia situazione, sono rimasta sbalordita dal fatto che mi hanno chiesto di andare autonomamente all’ospedale in viale Jenner a Milano per fare il tampone. Eppure, un amico medico, mi aveva detto che in Emilia-Romagna ad esempio mandavano le Usca a domicilio. Anche in Puglia so che funziona così. Avrei dovuto per forza prendere i mezzi pubblici perché non abbiamo un’auto privata, oppure camminare per un’ora a piedi, nonostante fossi malata. Ho dovuto contestare la loro decisione più volte prima che capissero che non era il caso di farmi salire su un autobus. Mi hanno detto che mi avrebbero richiamata per concordare un’altra modalità. Non ho mai più ricevuto una telefonata dal loro, nemmeno alla fine della quarantena».

Nicola: «Anch’io ho ricevuto la chiamata dell’Ats per concordare il tampone solo un paio di giorni dopo la fine della quarantena, il 23 agosto se non ricordo male. Stessa storia di Elisa: hanno insistito affinché andassi io, a piedi, in ospedale. Eppure avevo spiegato che non avevamo a disposizione un’auto. Quando l’assistente al telefono mi ha chiesto, senza considerare altre soluzioni, di farmi accompagnare da un amico o un parente, non ci ho visto più: resto in quarantena, isolato, per non contagiare nessuno e mi chiedono di coinvolgere un’altra persona, esponendola al rischio del contagio stando seduti nella stessa auto? Gli animi si sono alterati e l’assistente ha chiuso la telefonata dicendo che avrebbe fatto segnalazione alle Usca e sarebbe arrivato qualcuno. Nessuna data, nessun orario: eppure erano passati già dei giorni dalla fine dell’isolamento obbligatorio».

Elisa: «Il 21 sarebbe dovuto essere il nostro ultimo giorno di quarantena. Nicola, che non era mai risultato positivo, sarebbe potuto anche uscire di casa per svolgere le faccende che io non potevo fare: ma nessuno era venuto a farci fare il tampone e, fino ad allora, restava bloccato anche lui, ufficialmente negativo al Covid».

Avete provato a telefonare per segnalare il disservizio?

Elisa: «Nell’arco della quarantena ci hanno telefonato dalla polizia municipale per controllare che fossimo in casa. Avevo preso nota del nome e del numero dell’agente. Dato che dall’Ats non si faceva vivo nessuno, nonostante il periodo di quarantena fosse finito, ho chiamo quell’agente segnalando cosa stava accadendo. Lui mi ha detto, ed eravamo già al 24-25 agosto, di stare tranquilla. Poi ha aggiunto: “È normale che non vogliano venire a farlo a casa, perché fanno i tamponi a domicilio solo ai disabili e agli anziani”. Sono rimasta allibita, di nuovo: sono tante le persone che vivono a Milano e non dispongono di mezzi di trasporto privati».

Nicola: «Paradossalmente, io che risultavo negativo sono stato più seguito di Elisa. E io dovevo fare solo un tampone, lei due distanziati di qualche ora. Il 25 agosto ricevo la chiamata dell’Ats in cui mi dicono che sarebbero venuti a farmi il tampone. Questa telefonata è arrivata dopo molteplici chiamate e pressioni fatte al medico di base. Abbiamo scritto anche delle mail all’Ats, alla quale ovviamente non abbiamo ricevuto risposta».

Quindi Nicola riceve il tampone, Elisa ancora nulla.

Elisa: «Il 27 mattina ricevo finalmente la chiamata dell’Ats. Sembra una barzelletta, ma mi chiedono di nuovo di andare in ospedale a fare il tampone. Per l’ennesima volta ho dovuto spiegare la mia situazione, senza auto e distante dall’ospedale. Dopo che io ho esternato le mie preoccupazioni, si decidono ad avvertire l’Usca: sono venuti a farmi il tampone a casa quel pomeriggio. Tra l’altro, esperienza terribile: per protocollo pare non possano entrare in casa, quindi mi sono dovuta sedere sull’uscio della porta. Ho fatto il tampone mentre tutti i vicini erano affacciati per assistere alla scena: mi sono sentita umiliata, trattata come un’appestata, e senza privacy. Ma questa, ovviamente, non è colpa degli operatori sanitari».

Nicola: «Il 27, subito dopo che Elisa aveva fatto il suo tampone, sono arrivati i risultati del mio sul fascicolo sanitario digitale. Era diventato positivo, nonostante fossimo isolati in casa».

A rigor di logica, se devono passare 24-48 ore tra un tampone e l’altro, due giorni dopo sono tornati a casa per fare il secondo test a Elisa, sbaglio?

Elisa: «Questa è stata un’altra delle mancanze dell’Ats. I risultati del mio tampone, e ricordo che la quarantena era finita il 21 agosto, sono arrivati il 31 agosto. Ma come è possibile sottoporti a due tamponi entro 48 ore se i risultati del primo sono arrivati dopo quattro giorni? La mattina, prima di ricevere i risultati del primo tampone, mi chiamano dall’Ats e mi dicono: “Verremo oggi a farle il secondo tampone”. Il pomeriggio, spiego la situazione alla dottoressa che doveva fare il test. Mi dice: Eh, lo so, mi mandano in giro a caso. Perché se lei è positiva al primo tampone, il secondo test è inutile: deve rifare altri giorni di quarantena a partire dal risultato del primo tampone di controllo».

Nicola: «Le hanno fatto un tampone inutile. I sanitari hanno sprecato il proprio tempo e sono stati buttati al vento dei soldi pubblici: poco dopo, riceviamo la chiamata del medico di base che comunica a Elisa i risultati del tampone del 27 agosto. Era ancora positiva. La sfortuna è che anche il tampone del 31 agosto risulterà poi positivo e quindi il conteggio della sua quarantena partirà dal giorno dell’ultimo test eseguito».

Altri 14 giorni?

Elisa: «Il mio medico di base non sapeva dirmi quanto sarebbe dovuta durare la seconda quarantena. Dall’Ats, alla prima chiamata fatta con loro, mi avevano detto che avrei dovuto fare altri 7 giorni di quarantena nel caso di positività perché ero una paziente in via di guarigione. Anche l’agente di polizia mi aveva parlato di una settimana soltanto di quarantena nel caso in cui il tampone di controllo fosse risultato ancora positivo. Sempre il 31 agosto, il medico di base mi aveva assicurato che avrebbe chiamato l’Ats per chiedere chiarimenti sulla durata del secondo isolamento e che mi avrebbe fatto sapere. Oggi, 5 settembre, non ho ancora ricevuto una telefonata».

Nicola: «Grazie al cielo, due giorni fa – il 3 settembre, ndr – l’Ats mi ha chiamato. Visto che risultavo come nuovo positivo dovevano fare l’indagine epidemiologica. A quel punto, ho chiesto informazioni anche per Elisa. “Guardi, la sua compagna deve fare 10 giorni di quarantena a partire dal secondo tampone di controllo”. In quel momento abbiamo saputo che Elisa era risultata ancora debolmente positiva, lei non era stata ancora ricontattata per l’esito del secondo tampone».

Quindi, dalla vostra esperienza, potete dire che nel caso in cui un tampone di controllo alla fine della quarantena risulti positivo, l’isolamento successivo dovrebbe durare altri 10 giorni.

Elisa: «Ah guarda, questo rimane un mistero. All’inizio l’assistente dell’Ats mi aveva parlato di 7 giorni. Poi mi hanno detto 10 giorni. Il medico di base, a un certo punto, sosteneva che la seconda quarantena dovesse durare comunque due settimane. Alla fine, la dottoressa che mi ha chiamato dall’Ats ha detto: “Ok, non consideriamo 10 giorni di nuova quarantena prima di un altro tampone, ma 7. Però li calcoliamo a partire dall’ultimo tampone fatto”».

Nicola: «Nel frattempo, io dovrei finire la quarantena l’8, Elisa il 7. Abbiamo fatto presente che, vivendo insieme, sarebbero potuti venire lo stesso giorno per sottoporci al tampone. Così, anziché preparare quattro volte l’uscita – due persone per il doppio tampone – sarebbero venuti solo due volte. La signora di Ats ci ha spiegato che i casi vengono considerati singolarmente e che per loro è difficile organizzare i tamponi sulla base allo stesso nucleo familiare. La mia prima quarantena di Elisa, quella di 14 giorni, è durata in realtà tre settimane. Non vorrei che anche questi 7 giorni diventassero il doppio. È da un mese che siamo a casa».

Come state?

Elisa: «Sembra di essere agli arresti domiciliari, un po’ perché lo sei effettivamente, un po’ perché le informazioni le devi conquistare, devi lottare al telefono ogni giorno. Manca trasparenza, o i sanitari sono volutamente poco chiari oppure sono male informati. Non ci comunicano le tempistiche con cui verranno a controllarci con il tampone. È tutto così frustrante, umiliante: ho perso definitivamente la fiducia nel sistema sanitario».

Nicola: «La cosa che mi ha colpito di più è la resistenza nel fare i tamponi a domicilio: hanno provato in tutti i modi di farcelo fare in ospedale. Elisa era positiva, ci hanno chiesto di farsi un’ora a piedi, poi ci hanno paventato l’ipotesi di prendere un mezzo pubblico, poi ci hanno chiesto di mettere a rischio un parente e di farci accompagnare. Alla domanda rivolta all’operatrice: “Ma lei chiederebbe a suo padre di portarla in ospedale se fosse positiva al Coronavirus?”, la dipendente dell’Ats non ha saputo rispondere».

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