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Il corpo nudo e sessualizzato delle donne (e degli uomini) non fa vendere più. Finalmente – La ricerca

04 Ottobre 2020 - 15:44 Maria Pia Mazza
Secondo i risultati di uno studio condotto da un team di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Padova e Trieste, la pubblicità sessualizzata genera rabbia e rigetto verso il prodotto e il marchio

«Il sesso? Vende». Questo, per decenni, è stato il “ritornello” che ha guidato il lavoro delle agenzie pubblicitarie di tutto il mondo. Una sorta di regola aurea che però, nel corso degli anni, è stata più volte messa in discussione, parallelamente allo sviluppo e alla crescita dell’empowerment delle donne, che ne ha aumentato il potere economico e decisionale, e di conseguenza d’acquisto. Un’oggettificazione sessuale, quella delle donne nelle pubblicità, che con il passare del tempo è risultata sempre meno efficace, se non addirittura controproducente in termini di (mancato) acquisto dei prodotti sponsorizzati e di (negativo) ritorno d’immagine per i marchi che ne hanno fatto ricorso. Inoltre, con il passaggio del ruolo del consumatore a prosumer (crasi di producer (produttore) e consumer (consumatore), coniata da Alvin Toffle e risalente a ormai 50 anni fa, ndr) il mondo della pubblicità – e non solo della produzione – ha dovuto rimettere in discussione le proprie “leggi”, per rimanere al passo con i cambiamenti socio-culturali del mondo.

L’effetto paradosso

A ciò si aggiunge anche la variazione e l’aumento di strumenti per indirizzare il messaggio promozionale verso i consumatori. Se prima l’attenzione delle persone incontrava a intermittenza la pubblicità sulla carta stampata, in tv, alla radio o mediante le grandi affissioni sparse per le città, oggi si interfaccia in modo pressoché continuo con prodotti sul web e in particolare sui social network. E questa iper-esposizione alla réclame – i cui confini identificativi, in qualità di pubblicità, sono divenuti sempre più labili e presentati in modo più o meno esplicito – ha ulteriormente alimentato i dubbi sull’effettiva efficacia dell’iper-sessualizzazione nei messaggi pubblicitari, in particolare modo quelli contenenti come modelli sia donne sia uomini in atteggiamenti e pose iper-sessualizzate. Ed è proprio su quest’ultima ipotesi che si basa un recente studio scientifico condotto da un team di ricercatrici e ricercatori dell’Università di Padova e Trieste (Sarah Gramazio, Mara Cadinu, Francesca Guizzo e Andrea Carnaghi) e che – in sintesi – hanno messo in dubbio la regola secondo cui, ancora oggi, il «sesso vende» e hanno ipotizzato, al contrario, un “effetto paradosso“.

La metodologia dello studio

Coinvolgendo centinaia di donne e uomini di nazionalità italiana, lo studio si è svolto in quattro fasi in cui sono state mostrate delle pubblicità di svariati prodotti (dalla carta igienica, agli alcolici, passando per profumi e occhiali da sole) in due “formule”: una neutra (ossia solo con il prodotto) e un’altra con la presenza di modelle e modelli ad affiancare i prodotti in pose e atteggiamenti ammiccanti ed esplicitamente sessualizzati. Sia le modelle sia i modelli presenti nell’esperimento erano tutti di carnagione bianca e rispecchiavano canoni di bellezza standardizzati e tradizionalmente associati al concetto di “bello” (inteso nell’ottica pubblicitaria), ossia magrezza nel caso delle donne e muscolatura accentuata per i modelli maschili. Dopo aver visionato prima gli annunci neutri e successivamente la versione sessualizzata, le donne hanno mostrato minore intenzione di acquistare il prodotto, sia nel caso di pubblicità con modelle femminili, sia con modelli maschili. Inoltre, si è ottenuta la medesima reazione nel momento in cui gli uomini sono stati esposti a pubblicità con aitanti modelli.

I risultati della ricerca

In ambedue i casi, seppur con maggiore incidenza sul fronte femminile, gli annunci iper-sessualizzati hanno evocato un ampio ventaglio di emozioni negative, che andavano dalla rabbia alla tristezza, così come innescavano stati di agitazione e di rigetto nei confronti del prodotto. Secondo gli autori dello studio, infatti, le rappresentazioni sessuali presentate alimentano «la disuguaglianza di genere, la tolleranza verso le molestie sessuali e l’accettazione del mito dello stupro». Ma dallo studio è emerso anche un cambiamento di paradigma da parte degli uomini nei confronti delle pubblicità con modelle femminili sessualizzate. Secondo quanto emerso dalla ricerca, anche gli uomini «in gran parte non risultavano influenzati dal livello di sessualizzazione delle donne presenti negli annunci». Questo – a detta degli studiosi – metterebbe in luce che col passare degli anni (facendo riferimento a studi sull’efficacia pubblicitaria di alcuni costrutti iconografici, svolti in particolare modo dagli anni Settanta in poi, ndr) «le persone potrebbero aver sviluppato un apprezzamento per una varietà di annunci di modelli femminili e maschili che va oltre la sessualizzazione».

Gli ignoti scenari futuri della pubblicità

Una sintesi di ricerca che in futuro potrà essere certamente ripetuta e implementata, sottoponendo al campione di tester pubblicità con modelle e modelli scelti con un approccio più inclusivo, nonché prodotti più polarizzanti (di lusso e ordinari, ndr) – così come apertamente dichiarato dal team dell’Università di Padova e Trieste -, che ribadisce la necessità di rimettere in discussione le proprie “regole auree” per il panorama pubblicitario. Luoghi comuni non più specchio dei tempi, ormai divenuti obsoleti e dinanzi ai quali si rischia di innescare mera indifferenza. È difficile immaginare quale sarebbe la reazione odierna dinanzi all’iconica campagna pubblicitaria dei Jesus jeans realizzata da Emanuele Pirella e da Michael Goettsche che coniarono lo slogan «Chi mi ama mi segua». Un claim che campeggiava sulla foto del tondo fondoschiena della modella Donna Jordan, scattata dal fotografo Oliviero Toscani. Probabilmente – oggi – la medesima campagna avrebbe innescato una polemica, destinata però a durare pochi giorni, salvo poi essere archiviata in fretta e furia da una nuova polemica. Invece che diventare – come è stata – un’icona senza tempo, a prescindere dall’opinione, dai valori e dal gusto personale.
Ma l’immagine immortalata da Toscani resta un fotogramma di quell’epoca, non della contemporaneità. E, sulla scia dei risultati dello studio dell’Università di Padova e Trieste, quell’iconografia sessualizzata e di mercificazione del corpo – oggi – potrebbe creare rigetto nella potenziale acquirente, innescando l’effetto paradosso. Insomma, nel campo pubblicitario sembra esserci sempre più l’urgenza di abbandonare codici del passato, aprendo invece le porte ai cambiamenti del mondo, così come ai nuovi assetti socio-culturali, e di conseguenza ai nuovi valori (e alle emozioni) dei consumatori e delle consumatrici. L’alta posta in gioco resta la stessa: non più il «purché se ne parli», ma il vendere o non vendere. Per davvero.

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