I commercianti di Palermo si ribellano al pizzo: 20 mafiosi arrestati. Il racket sulle serate, il consiglio al cantante: «Fai il tatuaggio di Falcone e Borsellino e non hai problemi»

L’organizzazione mafiosa gestiva tutto, con infiltrazioni nel mondo dello sport e dello show business locale. Le indagini sono partite dopo le denunce delle vittime del racket

Dopo anni di pizzo, silenzio e umiliazioni, qualcuno ha deciso di ribellarsi al sistema criminale che vessava sulle attività commerciali della zona e ha deciso di denunciare. L’atto di ribellione alla mafia dei negozianti del quartiere Borgo Vecchio di Palermo ha portato al fermo di 20 persone. Si tratta di boss, gregari ed esattori che, a vario titolo, sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, ai furti e alla ricettazione, tentato omicidio aggravato, estorsioni e danneggiamenti.


Le denunce spontanee delle vittime riguardavano 13 uomini del clan. L’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia, sotto la guida del procuratore Francesco Lo Voi, ha portato all’individuazione di almeno altre sette persone del mandamento mafioso di Porta Nuova. In cinque casi, i commercianti hanno ammesso di pagare il pizzo solo dopo essere stati convocati dagli inquirenti. Nell’ambito dell’inchiesta, è stato fermato anche il boss Angelo Monti, scarcerato soltanto tre anni fa.


L’organigramma della “famiglia”

Monti aveva ripreso le redini della cosca ed è ritenuto dai magistrati il reggente della “famiglia” del Borgo Vecchio. «Ti vuole conoscere una persona che comanda il Borgo, un pezzo da novanta, non un pezzo di quaranta, un pezzo da novanta. Ti dico solo il nome: Angelo. Il cognome non te lo dico non è giusto», si sente in un’intercettazione finita nelle carte dell’inchiesta. I “colonnelli” del capo sarebbero stati suo fratello, Girolamo Monti, anche lui arrestato nel 2007, e Giuseppe Gambino, con precedenti di mafia, secondo le indagini il tesoriere dell’organizzazione.

Dal racket allo show business locale

Le persone delegate a riscuotere il pizzo erano Giovanni Zimmardi, Vincenzo Vullo e Filippo Leto. Le altre aree di competenza del clan, come il traffico di stupefacenti, erano gestite da Jari Massimiliano Ingrao, nipote del boss, e dai sue due fratelli. Le attività di questa costola di Cosa nostra si estendevano fino al controllo delle celebrazioni religiose in alcuni quartieri di Palermo. Dai fogli dell’inchiesta emerge, ad esempio, un monopolio nell’organizzazione delle serate della fasta della patrona del Borgo Vecchio, Madre Sant’Anna.

I mafiosi agenti degli artisti

Il clan reclutava i cantanti neomelodici che si dovevano esibire e, attraverso il racket, raccoglieva i fondi necessari, le “riffe”, per mettere in scena lo spettacolo e pagare i proventi degli artisti. Anche il sistema delle sponsorizzazioni di questi eventi era gestito da Cosa nostra. Parte dei soldi derivanti dal business era utilizzata per il mantenimento delle famiglie dei mafiosi detenuti e per investimenti illegali.

Il tatuaggio di Falcone e Borsellino

Nelle carte in mano ai magistrati compare anche il nome di Niko Pandetta, famoso cantante neomelodico palermitano che era solito dedicare i suoi concerti «a chi purtroppo sta al 41-bis». Pandetta, anche durante le interviste, mostrava un certo affetto nei confronti dei boss, cosa che a lungo andare gli avrebbe causato un allontanamento dalle scene. Per risolvere il problema, in un’intercettazione finita agli atti, un mafioso suggerisce: «Fatti un tatuaggio, ti scrivi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e si risolvono i problemi».

Il mondo del calcio

Le diramazioni del clan avrebbero raggiunto anche gli ambienti vicini alla squadra di calcio del Palermo. «Le indagini – scrivono gli investigatori – hanno delineato un significativo quadro di rapporti fra le tifoserie calcistiche palermitane e Cosa nostra». I vertici criminali controllavano gli ultras all’interno dello stadio al fine di tutelare uno storico capo dei tifosi rosanero, elemento di raccordo tra il tifo organizzato e gli uomini della cosa. La società sportiva, invece, non risulta coinvolta nell’inchiesta.

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