Picco di femminicidi durante il lockdown: «La donna che non scappa è quella senza lavoro» – L’intervista

I dati dell’Istat sono solo la punta dell’iceberg. Sigrid Pisanu, consigliera dell’associazione D.i.Re, racconta le difficoltà dei centri contro la violenza nei 12 mesi di pandemia

«Ho un ricordo chiarissimo delle prime due settimane di marzo. Mentre eravamo prese dall’organizzazione per la pandemia, io e le altre volontarie del centro antiviolenza ci siamo rese conto che gli unici contatti che avevamo erano con donne che già conoscevamo. Tutte le altre le avevamo perse». Sigrid Pisanu è una delle responsabili del centro di Merano, in Alto Adige, e una delle consigliere della rete nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza). Durante i mesi di pandemia da Covid, nonostante le difficoltà oggettive, non ha smesso di fare il suo lavoro di assistenza alle donne che chiedevano il suo aiuto. Quando ha visto i risultati dell’indagine dell’Istat sul femminicidio, però, non si è stupita: non aveva dubbi, dice, che ci si sarebbe trovati davanti a questo quadro.


Stando al report dell’Istituto di ricerca, nel primo semestre 2020 i femminicidi sono stati quasi la metà del totale degli omicidi (il 45%): il 10% in più rispetto ai primi sei mesi del 2019, quando la percentuale era del 35%. Inoltre, nei due mesi di confinamento più duro – quelli tra marzo e aprile -, i femminicidi hanno raggiunto un picco del 50%. Nel 90% dei casi gli assassini erano membri della comunità familiare, e nel 61% si trattava di un partener o ex partner. Le persone, cioè, con le quali spendevano la maggior parte del loro tempo chiuse in casa.


Non che la violenza sia nata con la pandemia, certo. Pisanu sa bene che gli abusi domestici sono parte integrante del nostro sistema, che ancora fatica a trovare risposte adeguate. Ma quest’ anno è stato indubbiamente particolare, almeno su 2 livelli. «Da una parte il Covid ha aumentato le situazioni di pericolo per le donne già rischio, peggiorando spesso la loro condizione», spiega. «Dall’altra, chi voleva rivolgersi a noi per la prima volta non ha avuto modo o occasione per chiedere aiuto».

Il silenzio del lockdown

Già nei mesi del primo lockdown la situazione si era fatta chiara. Come spiega Pisanu, in tutta Italia si è registrato un aumento delle richieste d’aiuto da parte delle donne già precedentemente in contatto con le associazioni del 74% rispetto alla media dell’anno precedente – un dato che testimonia il peggioramento delle condizioni durante l’isolamento. Parallelamente, però, si è registrata una diminuzione importante delle nuove richieste.

Poi c’è stato il problema logistico. Normalmente, le donne che chiedono aiuto ai centri antiviolenza vengono aiutate a uscire di casa con la promessa di essere accolte nelle case rifugio per tutto il tempo necessario. Con l’arrivo del Coronavirus, però, non era più possibile far vivere troppe persone nella comunità per non rischiare focolai. «Qui in Alto Adige siamo riuscite, dopo un po’ di tempo, a organizzarci con gli alberghi chiusi che si sono messi a disposizione», spiega Pisanu. «Ma all’inizio è stata dura, e molte delle ospiti sono andate in crisi».

Nel 2019, il tasso di femminicidi nel Nord est è stato uno dei più alti, secondo solo a quello delle Isole. Consce della situazione territoriale, Pisanu e le altre responsabili dell’associazione hanno iniziato a fare campagna attiva tramite giornale, social, volantinaggio. «Davamo consigli come: chiamaci quando vai a buttare la spazzatura e poi cancella la chiamata. Oppure approfittane quando vai in farmacia. E dopo un po’ di tempo, qualche donna ha cominciato a raggiungerci».

Il boom di richieste a novembre

A partire da maggio, le cose hanno cominciato a cambiare. Con l’inizio della Fase 2 e l’allentamento delle misure di contenimento, il numero delle donne che per la prima volta si sono rivolte a un centro antiviolenza D.i.Re è aumentato del 17% per cento rispetto a marzo/aprile. A novembre, quando lo spettro di un secondo lockdown si stava facendo realtà, molte hanno iniziato a chiamare in maniera preventiva, spaventate dalla possibilità di ritrovarsi in una condizione come quella di marzo.

«Abbiamo ricevuto molte richieste», dice Pisanu. «E quasi tutte le volte, ascoltando i loro racconti, abbiamo pensato “grazie al cielo ha avuto il coraggio di farlo”. Spesso a farle stare male è anche la presenza dei figli in casa, costretti ad assistere alle violenze molto più di prima». L’età media di chi chiede aiuto è tra i 39 e i 59 anni, ma la verità è che ci sono anche tantissime giovani appena maggiorenni. A peggiorare la loro condizione è la dipendenza economica: non avendo prospettive lavorative anche a causa della pandemia, molte di loro hanno desistito dallo scappare.

Il numeri sul lavoro

«Il femminicidio è solo la punta dell’iceberg», dice Pisanu. «Guardando ai dati sulla disoccupazione, possiamo capire che non è qualcosa che esce dal nulla». Gli uomini violenti con cui queste donne vivono, sottolinea, fanno leva sulle minacce. Su frasi come “Non troverai mai un lavoro“, “Non riuscirai a trovare una casa per i tuoi figli“. E ora che il Coronavirus ha colpito le fasce più deboli del mercato del lavoro, le donne in difficoltà si trovano davanti all’evidenza della realtà: il lavoro, per loro, non c’è.

«Questo è sia psicologicamente devastante, sia socialmente inaccettabile», dice Pisanu. «Non c’è niente da fare: per poter essere libere bisogna essere autonome dal punto di vista economico». Se la società non riesce a risolvere questo punto, spiega, le cose non miglioreranno. «La donna che non scappa è la donna che si chiede dove andare, cosa fare, tanto più se ha dei bambini. La responsabilità di questi numeri è anche di chi non fa niente per darle un’opportunità».

Immagine di copertina: M. su Unsplash

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