Anche l’Ue si è accorta che il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici è un problema. «In Italia c’è un vuoto legislativo» – L’intervista

La Commissione Europea ha presentato una proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale che limita l’utilizzo di tecnologie di sorveglianza. Ne parliamo con Filippo Sensi, promotore dell’iniziativa italiana sul riconoscimento facciale

Niente distopia. Niente Grande Fratello. E niente Minority Report. Per ora. Con la proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale presentata ieri, 21 aprile, la Commissione Europea si smarca da un futuro fatto di videosorveglianza massiva, dove ogni nostro movimento può essere tracciato, immaganizzato e rielaborato. Nella bozza, che dovrà essere discussa al Parlamento europeo, si parla infatti di sistemi di identificazione biometrica in remoto, programmi che fondono la videosorveglianza con il riconoscimento facciale. Queste tecnologie vengono considerate ad «alto rischio» e proprio per questo ora verrà studiata una normativa ad hoc per regolamentarle.


Negli ultimi mesi il tema della videosorveglianza e del riconoscimento facciale è tornato più volte nelle cronache. Il City Council di Minneapolis ha approvato una mozione che impedisce alla polizia di utilizzare i software di riconoscimento facciale. In Italia invece il Garante della Privacy ha chiesto al comune di Como di smantellare il sistema di sorveglianza che aveva costruito nella stazione dei treni, un sistema in cui le telecamere si collegavano direttamente a un software di riconoscimento prodotto da Huawei. Come ci aveva spiegato in questa intervista Laura Carrer, una delle firme della campagna europea Reclaim Your Face.


E proprio dall’Italia è sul tavolo della Commissione Affari Costituzionali una proposta di legge per una moratoria su questo tipo di tecnologie. A presentarla è stato il deputato Filippo Sensi, eletto nel 2018 nelle liste del Partito Democratico.

La Commissione europea ha deciso di mettere in discussione il tema del riconoscimento facciale con una proposta di legge. È abbastanza?

«È un passo avanti ma ci sarà molto da lavorare sulla tutela della privacy. Ho visto che nel regolamento c’è comunque la possibilità di integrare videosorveglianza e riconoscimento facciale in alcune occasioni. Per quanto queste occasioni siano giustificabili, parlo ad esempio di crimini legati al terrorismo, bisogna stare attenti che non diventino delle aperture per poi integrare queste due tecnologie in modo indiscriminato».

In Italia c’è una normativa del genere?

«C’è piuttosto un vuoto legislativo. A livello locale si possono mettere le telecamere senza grossi problemi manca un contesto più ampio».

Uno dei casi più recenti riguarda la città di Como. Qui l’azienda scelta per l’appalto del software era Huawei. C’è anche un problema su dove vengono conservati i dati ottenuti?

«Esistono due modelli: quello degli Stati Uniti e quello della Cina. Negli Stati Uniti sappiamo che i dati raccolti vengono gestiti dalle aziende che forniscono il servizio. In Cina invece vengono gestiti direttamente dallo Stato. Qui in Europa possiamo trovare un sistema nuovo e diventare un esempio».

C’è un rischio per la sicurezza nazionale?

«Al momento non ne farei un problema di penetrazione delle tecnologie cinesi in Italia. È più un problema di privacy».

Questi sistemi vengono presentati nell’ottica di rendere più efficaci i controlli delle forze dell’ordine. Quali sono i rischi?

«Sono parecchi. E riguardano soprattutto la possibilità di incamerare dati a strascico, in particolare nei luoghi pubblici. Avere una telecamera in una piazza è una cosa, averla con un sistema di riconoscimento facciale attivo è un’altra».

Come vengono collegati i nostri volti ai nostri dati?

«Questo non è chiaro. Anche qui dobbiamo capire quali banche dati vengono utilizzate e come. Dalla nostra immagine è possibile ad esempio risalire ai nostri social network. La privacy non è un vezzo che abbiamo imparato dagli inglesi. È la nostra libertà: la sorveglianza è un tema politico».

Visto che se ne parla in Europa, non rischia di creare confusione discutere una moratoria anche nel Parlamento italiano?

«Certo. Sarebbe meglio seguire una via comune europea. Parlarne però alimenta il dibattito e ci permette di capire meglio come muoverci su questo terreno. In Italia poi ci sono già dei casi di studio per cui si è espresso il Garante per la Privacy. É il caso del sistema Sari Real Time a cui era interessato il ministero dell’Interno, un sistema che il Garante ha preferito bocciare».

Foto di copertina: Affari vettore creata da jcomp – it.freepik.com

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