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Santa Maria Capua Vetere, i depistaggi dopo le violenze: ecco da chi partirono gli ordini

Nell'ordinanza del Gip tre livelli di responsabilità: chi ha pestato, chi ha guardato senza intervenire e chi ha coperto tutto

I pestaggi dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere furono una «spedizione punitiva». E ci sono tre livelli di responsabilità, che coinvolgono rispettivamente chi ha picchiato, chi ha guardato e chi ha comandato l’«ignobile mattanza» descritta dal giudice per le indagini preliminari Sergio Enea nelle 2.300 pagine dell’ordinanza. Che coinvolgono 117 agenti di polizia penitenziaria. Ma anche l’intera catena di comando dell’amministrazione delle carceri campane. Dal provveditore all’amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone, oggi interdetto dai pubblici uffici e sotto accusa per falso, depistaggio e favoreggiamento, al “suo” comandante, Pasquale Colucci, finito in carcere per il pestaggio.

Le accuse ai poliziotti nell’ordinanza del Gip

La Repubblica scrive oggi che nelle carte del gip l’intera catena di comando, a vario titolo, viene interessata dall’indagine. Oltre a Fullone e Colucci, ci sono il comandante della penitenziaria nel carcere Gaetano Manganelli e le due colleghe, Anna Rita Costanzo (commissario capo responsabile del Reparto Nilo) e Francesca Acerra (comandante del Nucleo Investigativo Centrale). Non solo: agli atti figurano anche le chat tra Fullone e l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dello Stato Francesco Basentini dopo la rivolta. «Buona sera capo – gli scrive Colucci quel 6 aprile – è in corso perquisizione straordinaria con 150 unità provenienti dai nuclei regionali (oltre al personale dell’Istituto)… Era il minimo per riprendersi l’Istituto…». «Hai fatto benissimo», gli risponde Basentini.

Quella perquisizione, scrive il Gip, «diventa lo strumento mediante il quale si è dato sfogo ai più beceri istinti criminali degli agenti a cui è stato consentito di operare ogni sorta di violenza ai danni dei detenuti». Agli atti c’è un altro dialogo tra Fullone e Manganelli: «Utilizziamo anche scudi e manganelli», dice quest’ultimo. «Ok, se necessario ovviamente», risponde Fullone. Manganelli ora è in carcere, accusato in concorso per una serie di episodi di torture, lesioni e maltrattamenti pluriaggravati. Ieri intanto la direttrice del carcere Elisabetta Palmieri ha smentito la sua presenza durante le violen#ze ai danni dei detenuti il 6 aprile del 2020: «Sono stata assente per tre mesi per motivi di salute».

I depistaggi dopo le violenze

E poi ci sono i depistaggi e il silenzio davanti agli investigatori. Il Corriere della Sera racconta oggi che nei giorni successivi, secondo gli inquirenti, alcuni degli indagati tentano di far sparire le registrazioni del circuito di videosorveglianza. E lì il capo del Gruppo di supporto scrive a Fulloni: «Vado a Smcv. Per video». Aggiungendo poi: «Sono sul posto, ho raccolto tutto». «Ottimo», è la risposta del provveditore. Poi, quando il 10 luglio 2020 i pm titolari delle indagini lo interrogano. Fullone ammette di aver deciso la perquisizione straordinaria e rivendica di aver agito legittimamente perché in presenza di «specifiche situazioni emergenziali».

Ma sostiene anche di aver saputo dei pestaggi solo quando ne hanno parlato giornali e tv: «Nessuno mi ha mai informato, tra le persone che avevano operato in concreto, del fatto che ci fossero state violenze ai danni di detenuti». Quando gli chiedono se dalle immagini registrate saprebbe riconoscere i poliziotti picchiatori, risponde: «Sono chiaramente disponibile per ogni contributo utile». Ma quando gli fanno vedere tre video, per tre volte a domanda risponde: «Non riconosco nessuno».

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